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Chiaroscuro, connotato comune alle due sponde del Tevere, al momento di chiudere il libro mastro dell'anno che sta per congedarsi, quanto felicemente non saprei dire.

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Perrigoroso rispetto dei dettami dell'alfabeto, proprio dalla Lazio parte l'esame di un 2009 avviato all'insegna del piccolo cabotaggio, illuminato dai lampi di gloria dell'estate, poi naufragato in una mediocrità che ha perfino prodotto risvolti allarmanti. La Capitale si è nutrita, e ne avrebbe fatto volentieri a meno, di vicende societarie più che di prospettive tecniche, ma quella della Lazio è una situazione del tutto particolare. A differenza dei cugini, nessuna frenetica rincorsa, neanche a livello mediatico, a una svolta nella gestione, salvo qualche ritorno di fiamma, magari discutibile, a mettere in pericolo l'egemonia di Claudio Lotito. Al patron laziale, difficile disconoscere il merito di avere messo in salvo, con opportuni appoggi, una società che aveva rischiato la liquidazione coatta. Poi però la poltrona è stata presidiata con una sorta di onnipotenza che il tifoso non ha gradito: fino al poco comprensibile autolesionismo che ha sottratto alle casse sociali il prezioso controvalore di Goran Pandev e forse anche di quello di Ledesma. Muro contro muro improduttivi, conflittualità acrimoniosa estesa anche a fasce meno nobili del'organico, mai intrapresa la via di ragionevoli contatti umani. Molto ha risentito di questa situazione di stallo Davide Ballardini, al quale Delio Rossi aveva lasciato rispettabile eredità. Forse non estraneo, alla imbarazzante posizione attuale, anche l'aziendalismo che ha ispirato gli atteggiamenti del nuovo tecnico, non del tutto condivisi da uno spogliatoio non mal disposto verso la pattuglia ribelle. L'amarezza è accentuata dalle promesse che la squadra aveva formulato aprendo la nuova stagione, dopo un decimo posto anonimo, con la conquista della Coppa Italia ai rigori sulla Sampdoria, poi a Pechino con la più prestigiosa Supercoppa nazionale sottratta ai cannibali in nerazzurro. Ma alla chiusura dei conti, naufragio europeo compreso, la colonnina del passivo resta purtroppo fin troppo eloquente rispetto a quella dell'attivo, un miglior futuro potrebbero delinearlo un grande impegno nel lavoro, ma soprattutto una ritrovata disposizione al colloquio e al rasserenamento dei rapporti umani. Il chiaroscuro romanista ha evidenti riferimenti a un passato tuttora vivo nel cuore del tifoso, una squadra reduce da tre secondi posti consecutivi e da più che onorevoli comportamenti nell'Europa nobile, unanimi apprezzamenti per la qualità del gioco esibita. Le premesse per la chiusura di un ciclo felice le aveva poste la campagna estiva dell'anno scorso, celebrati frettolosamente acquisti che avevano lo sgradevole, acre aroma del fumo negli occhi, le reali esigenze ignorate, forse in omaggio alla strenua difesa di un'autogestione puntellata a lungo dai soldi della Champions. Logorio di qualche pedina fondamentale per il triennio di gloria, forse un minimo di scetticismo indotto anche nell'animo di Luciano Spalletti, l'uomo dei miracoli. L'estate aveva presentato un bilancio nettamente in rosso rispetto alle unanimi attese, giustificate dalle posizioni di privilegio a lungo presidiate. Un sesto posto buono per salvare una presenza internazionale, non gratificata però dagli introiti che la Champions aveva a lungo garantito, logico che un passaggio di mano della società fosse visto dal popolo romanista come l'unica possibile soluzione ai problemi di una squadra gestita da un gruppo soffocato dai debiti. Un aspetto chiaro di una vicenda che non ha ancora scritto la parola fine, la volontà della famiglia Sensi di non mollare la presa, se non a condizioni economiche fuori dalla realtà. Spalletti, che pure un paio di mesi memorabili li aveva regalati con quell'inverno viziato soltanto dagli scivoloni di Catania e Bergamo, ha forse sbagliato nel ritardare il suo addio, inevitabile una volta venuti meno i presupposti per un progetto ambizioso. Ma l'umore di questa città è strano, basta che un nome prestigioso arricchisca il parco macchine e tutti i problemi si dimenticano, poco importa dei parametri zero che generalmente soccorrono società di ben più modesto prestigio. Le altre società possono investire, la Roma vive ancora di generosi aiuitini, da Burdisso allo stesso Toni, operazioni di immagine come perfino il rinnovo di Totti, del resto ineludibile. A partire dall'anno nuovo, subito i confronti con Cagliari e Chievo, due delle tre squadre che in Italia giocano il calcio migliore, la terza è il Bari, Ranieri è chiamato a esibire un ulteriore miracolo, dopo quelli che la sua gestione ha già regalato. Modulo da trasformare o problematica convivenza da realizzare, ci sono Totti, Toni, Vucinic, poi Menez, per non parlare di Julio Baptista, Cerci, Okaka. Si prevede uno sfoltimento, ma anche quello pretende buona volontà altrui, Cicinho vuole gratificare a spesa zero la sua «saudade», ma è costato più di dieci milioni, a Madrid ancora alzano i calici. Meglio ricordare, nel tirare le somme, i momenti felici, quelli vissuti in una troppo breve parentesi di campionato, perfino quello sfortunato ottavo europeo con l'Arsenal, la legge maligna dei rigori. E sognare un futuro che richiami i fulgori di un passato ancora vivo nel cuore.

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