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Da trent'anni l'uomo sfida i propri limiti

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Dakarsì, Dakar no. È l'interrogativo che insegue gli organizzatori del rally più duro del pianeta terra, una corsa contro il tempo e le ostilità della natura che mettono l'uomo tecnologico a nudo. Una sorta di sfida alle forze del pianeta che l'homo sapiens non è riuscito ancora a domare e che forse proprio per questo lo attraggono maledettamente. Lo chiamavano mal d'Africa, ma l'affluenza alla seconda edizione della Dakar sudamericana dimostra come la scenografia sia quasi una roba marginale in questa gara contro tutto e tutti che ha un solo obiettivo finale: arrivare. Meglio se davanti, ma la vera sfida è arrivare in fondo, dimostrare al mondo, ma soprattutto a se stessi, che si può andare oltre i propri limiti. Meno sabbia, ma più pietre, strapiombi e l'imprevedibilità della Terra del Fuoco hanno caratterizzato il trasferimento dall'altra parte del pianeta, costretti giocoforza dalle guerre che devastano il Continente Nero e che restano il vero problema di un'Africa incagliata nella sua storia. I 54 morti causati dalla Dakar dalla sua prima edizione nel lontano 1979 a oggi sono, tutto sommato, un bilancio nemmeno esagerato vista l'esasperazione della competizione. Ma soprattutto viste le vastità e le insidie affrontate da quei temerari che non riescono a stare lontano dalla gara e che, in molti casi, hanno sacrificato la propria vita per restare aggrappati all'adrenalina che solo «lei» è in grado di trasmettere. Loro la risposta all'atavico quesito ce l'hanno da sempre... Dakar sì, a costo della vita.

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