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L'Amico Rino Tommasi ha avuto mille volte ragione, domenica mattina, a polemizzare con la balzana idea dei presidenti di club cadetti di cambiare il nome della serie B in A/2.

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Diben altro bisogna discutere a proposito del calcio italiano che, come tanti altri settori della nostra vita associata, avrebbe bisogno invece di un serio ripensamento della sua struttura organizzativa e del suo costume morale. Se ne può ragionare serenamente perché, con l'avvento del calcio-spettacolo, della rivoluzione telematica e del macroscopico fenomeno della migrazione in Occidente dai paesi sottosviluppati, la popolarità del gioco e le sue fortune finanziarie, si sono largamente consolidate. Si tratta soltanto, particolarmente in Italia, di garantire meglio la funzionalità del sistema. Sul piano strutturale, non è azzardato raccomandare la riduzione del numero dei club nel settore professionistico e una razionalizzazione dei calendari che le emittenti televisive hanno imposto in termini frenetici fra campionato, coppe e competizioni intercontinentali. Con almeno due conseguenze negative: la necessità di raddoppiare la «rosa» dei titolari e quindi le spese di gestione e la tendenza a moltiplicare infortuni anche gravi e prolungati, conseguenti a una attività incessante tra allenamenti, ritiri e spostamenti. La frenesia della competizione ha generato un altro fenomeno dannoso: una lievitazione crescente, spesso scandalosa, del prezzo dei giocatori più appetibili sul mercato nonché dei costi in pura perdita di lunghi contratti per allenatori licenziati su due piedi dopo poche settimane. La conseguenza di un simile andazzo, come purtroppo sappiamo assai bene, è che grandi e popolarissimi club finiscono per scottarsi nella fornace degli impegni. Non sono soltanto, però, i nostri dirigenti a prodigare sul mercato quelle somme folli che perfino la figlia di Berlusconi, a proposito delle proteste di Gattuso, ha bollato come insensate. Tanto che il presidente della FIFA Blatter e ancor più Michel Platini, presidente dell'Uefa, si stanno battendo per porre un limite al tesseramento di giocatori stranieri per ciascun club, beninteso non per assurdo criterio nazionalistico ma per porre un argine a un eccessivo dispendio di milioni e soprattutto per incrementare l'allevamento e lo sfruttamento dei vivai giovanili. In effetti, un intervento articolato e severo va condotto anche sul piano della cultura sportiva e del costume. La discutibile decisione di rinviare la cosiddetta «tessera del tifoso» ha coinciso, paradossalmente, con l'intensificasi di stupide manifestazioni venate di razzismo (soltanto, però, a caccia dei negri delle squadre avversarie), manifestazioni che bisogna colpire con sanzioni sempre più severe, fino all'interruzione o addirittura alla perdita della partita. Per fortuna, si segnalano iniziative che mirano proprio a diffondere un sentimento più sereno della sfida sportiva e magari della sconfitta. Proprio domani, il presidente del CONI incontra il Ministro Gelmini per stringere l'intesa che dovrebbe introdurre gradualmente l'insegnamento delle attività motorie, e quindi dei primi elementi di educazione sportiva, nella scuola elementare. Speriamo che abbia un seguito effettivo. Da un anno, invece, è già attivo, per inziativa dell'università di Tor Vergata e sotto la direzione di Gianni Rivera, il Premio Etica nello sport, che segnala annualmente ai ragazzi delle scuole un campione che si sia distinto per un gesto o un comportamento esemplare.

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