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Globalizzazione male del calcio

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Èla globalizzazione, bellezza; e in termini calcistici sta implicando un trasferimento sempre più massiccio di giocatori dei paesi meno sviluppati, Africa, Sud America ed Est europei, verso l'Occidente e, al tempo stesso, sta moltiplicando le ambizioni sportive e nazionalistiche di quei paesi: vedi impegno del Sud Africa per i «mondiali» di calcio e del Brasile per le Olimpiadi. Per quel che tanto che il fenomeno chiama in causa l'Italia bastano due cifre: i nostri club della Lega Pro, che è l'attuale serie C, hanno tesserato quest'anno ben 163 giocatori, appartenenti a 36 paesi! E non parliamo delle formazioni di club più famose, le quali pullulano di africani, di brasiliani, di argentini, senza dire che - magari per ragioni più finanziarie che tecniche - si tende ormai a reclutare quanti più elementi possibili che da contrade della stessa Unione Europea, la cui economia è stata devastata da oltre mezzo secolo di disastroso dirigismo sovietico. Il presidente della FIFA Blatter e il suo collega europeo Platini hanno più volte manifestato anche recentemente la loro preoccupazione per i danni che questa dilagante politica dell'import può arrecare alla prosperità dei vivai locali dell'Occidente ed anche ai livelli di occupazione per giocatori di media caratura tecnica. In Italia, per esempio, il Centro tecnico di Coverciano (istituto esemplare valorizzato da grandi dirigenti fiorentini come Ridolfi Franchi) organizza ormai da anni, in estate, un corso di riqualificazione per giocatori disoccupati o non ancora sistemati che hanno perduto il posto in squadre di Lega Nazionale e sperano, allenandosi, di recuperare una sistemazione. E sono corsi discretamente affollati. C'è anche un'iniziativa del Sindacato Calciatori in difesa di più di un milione di ragazzi che non possono decidere del loro futuro sportivo perché il nostro è l'unico paese dell'Unione Europea in cui per i calciatori dilettanti il vincolo con le società dura fino ai venticinquesimo anno di età. Ma il processo sempre più impetuoso ed irresistibile della globalizzazione, che grazie alla rivoluzione digitale esalta nel calcio lo spettacolo a detrimento di altri valori, mette in pericolo non solo le competizioni delle Nazionali ma lo stesso meccanismo del campionato, basato sulla logica dinamica della promozione-retrocessione. Lo abbiamo apprezzato anche negli ultimi anni in cui club come la Juve, il Napoli, la Fiorentina - pur travolti da vicissitudini giudiziarie o finanziarie - hanno potuto risalire la china nel giro di pochi anni. Non poche società come le due milanesi e la stessa Juve guardando però con invidia al modello, per ora futuribile nell'ambito dell'Uefa e della Fifa, della famosa Nba statunitense, la Lega cioè del super-basket riservata all'aristocrazia della pallacanestro americana, rinforzata dai migliori esponenti individuali di altri continenti: un modello di super-lusso che circoscrive il discorso ai soci del super-club, rinunciando a quella febbrile mobilità, su e giù, che anno per anno dischiude rimpianti e speranze per grandi folle di appassionati. Per fortuna, al di là delle ambizioni (umanissime) dei paesi emergenti, l'organizzazione di campionati continentali e mondiali nonché dei Giochi Olimpici non solo suscita enorme interesse ma finisce per sollecitare anche grandiose innovazioni nello sviluppo urbanistico: si può sperare, perciò, almeno in una coesistenza pacifica delle due vocazioni.

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