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Quel «nero» offuscò il resto del mondo

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Gliisolani chiamano così la Nuova Zelanda. Una terra di foreste e ghiacciai popolata da leggende, dove nascono guerrieri e rugbisti, dove le grandi imprese sembrano possibili. Laggiù il rugby è una religione che unisce le tre «anime» del popolo neozelandese. I nativi maori, gli isolani tongani e figiani, i «pakea», termine dispregiativo con cui i maori chiamano i bianchi. Sono proprio due «pakea», il ct Graham Henry e il capitano Mc Caw, a guidare gli All Blacks nel Tour 2009 che li porterà a riempire lo stadio di San Siro sabato e che, per l'ennesima volta, richiamerà dalle nebbie della memoria la leggenda degli invincibili tutti neri. Risale al 1905 il primo, epico Tour europeo della squadra passata alla storia con il nome di Originals. In quel tempo i viaggi duravano mesi, gli oceani si solcavano a bordo delle navi e gli arbitri vestivano giacche tagliate dal sarto. I neozelandesi stupirono il mondo, e non solo per quella strana danz a- la Haka - che mostravano al pubblico e agli avversari prima della partita in segno di sfida, certo, ma anche per dimostrare l'integrazione tra bianchi e nativi. Era una squadra piena di personaggi leggendari, come il capitano Gallagher, irlandese del Donegal, che morirà poi combattendo nelle Fiandre durante la Prima Guerra Mondiale con gli Anzacs, le truppe coloniali che si coprirono di gloria nel Vecchio Continente. Quella squadra giocò in Europa 35 partite vincendole tutte, tranne una passata alla storia come il match della meta fantasma. Successe contro il Galles. Con il punteggio in bilico i neozelandesi in capo a una travolgente azione corale spedirono Bobby Deans, bisnonno dell'attuale coach dell'Australia, a violare la linea di meta. Ovale schiacciato a terra per tutti ma non per l'arbitro, lontano per non essere riuscito a seguire la rapida azione. Non erano ancora i tempi del TMO, la moviola in campo: la meta fu annullata. Anni dopo, sul letto di morte, Deans se ne andò pronunciando la frase: «Dite ai gallesi che quella meta io l'ho segnata», consegnandone alla storia il ricordo. Proprio nel 1905 in Nuova Zelanda nasceva George Nepia, un maoro che giocando da estremo con la maglia numero 15 guidò a 19 anni, nel 1924, la seconda spedizione europea degli All Blacks passata alla storia come quella degli Invincibili. Il Tour fu lunghissimo e la squadra giocò decine di partite vincendole tutte, con un unico rammarico: i neozelandesi non poterono fregiarsi del titolo dello Slam (possibile solo quando batti tutti gli avversari britannici) per non aver incontrato la Scozia. Da allora le radici della leggenda nera si radicano sempre più profonde, le maglie con la felce d'argento diventano il simbolo stesso del rugby nel mondo, l'immagine della vittoria. Le storie si incarnano nei volti e nelle imprese di campioni indimenticabili che, a ogni Tour, aggiungono pagine al libro della gloria. Nel 1963 il capitano è Wilson Whineray e la sua faccia è in tutto il mondo grazie alla televisione, il media che diffonderà ovunque il brand All Blacks. La galleria è lunga. Colin Meads si guadagna il soprannome di «Pino» durante quindici anni di carriera internazionale, Brian Lochore e Graham Mourie firmano grandi imprese come giocatori prima e allenatori poi. E ancora il grande cecchino Grant Fox, «Buck» Shelford, John Kirwan fino a Tana Umaga e Jonah Lomu (nella foto). Sono loro gli Eroi divini che hanno scritto la leggenda di una squadra condannata a essere sempre vincente, tranne che ai Mondiali. Un solo alloro iridato (nel torneo ospitato nel 1987) per gli All Blacks che nel 2011, ancora in Nuova Zelanda, sperano di ripetersi finalmente. E allora tutti a vederli sabato a San Siro. Guardandoli giocare sembrerà che assieme a loro corrano ancora gli eroi del passato Gallagher, Deans e Nepia. Guardandoli giocare ci si innamorerà di quelle felci argento sulle maglie nere. Ci si innamorerà del rugby e della sua leggenda. Ale.Fus.

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