Button, risveglio mondiale
Un Mondiale che è stato soprattutto un viaggio per conoscere se stesso. Per ritrovarsi, perdersi ancora e, dopo sette lunghi mesi, riscoprirsi ancora più forte. Un Mondiale che, volendo, rappresenta la fotografia di un'intera carriera. Perché per Jenson Button gli alti e bassi non sono una novità. Quando arriva in Formula Uno al volante della Williams, nove anni fa, sembra la promessa più brillante della scuola automobilistica inglese. Poi l'appannamento: stagioni anonime prima in Benetton, poi alla Honda, mentre nel paddock si diffondono le voci sulla colpevole passione per la bella vita che ne condiziona le prestazioni in pista. Infine, a 29 anni, l'ultima grande occasione: il destino gli riserva, nella stagione dei regolamenti folli e del caos diffusori, la macchina di gran lunga più veloce del circus, la Brawn Gp dei miracoli di inizio stagione. E Jenson incomincia a vincere con continuità: ben sei trionfi nelle prime sette gare. Il Mondiale potrebbe finire lì, ma i vecchi freni psicologici di Button tornano a galla. Appena la sua monoposto incomincia a non andare più così forte, Jenson si blocca, non riesce più a salire sul podio, arriva sempre alle spalle del suo compagno Barrichello che incomincia a farsi minaccioso in classifica. Si arriva così in Brasile, con Rubinho che a casa sua parte dalla pole e Button che in prova non fa meglio del 14° tempo. Eppure, nell'estrema difficoltà, l'inglese si ritrova. Abbandona tutti i timori e si rende protagonista di una gara che, finalmente, giustifica la vittoria del titolo. Per assurdo, guardando la classifica finale del Gp, avrebbe anche potuto ritirarsi e sarebbe stato campione lo stesso. Ma, per una volta, non c'è tattica conservativa che tenga: Jenson sorpassa due, tre, quattro avversari. Prima Grosjean, poi Nakajima, poi Kobayashi, infine Buemi, prendendosi rischi che, visto l'andamento della gara, avrebbe potuto evitare. Ma in questo modo, finalmente, dimostra di non essere un campione dimezzato, spazza via le critiche per il «braccino» e a Interlagos, forse, trova l'inizio di una nuova carriera. Perché salire sul tetto del mondo può essere difficile, ma restarci - Raikkonen docet - lo è molto di più. La gara, per quello che può contare, la vince Mark Webber davanti a Kubica e Hamilton. Vettel non va oltre il quarto posto, Barrichello paga ancora una volta poca velocità e sfortuna, con una foratura nel finale che gli toglie le ultime, scarse, chanche di titolo. Il tutto in quasi cento minuti che, per bellezza e intensità, riscattano buona parte delle amarezze e della noia che ha regalato un campionato mediocre. Peccato che, tra tutti gli highlights che ha prodotto il Gp del Brasile, non ci sia neanche un lampo ferrarista. Il sesto posto di Raikkonen, sfortunato dopo una bella partenza, non basta a preservare il terzo posto nella classifica costruttori. L'undicesimo di Fisichella, dopo il sorpasso subito da Kobayashi, è lo specchio di una stagione Rossa segnata da una sequela impressionante di scelte sbagliate. Ma almeno da domani è il 2010, e a Maranello c'è voglia di riscatto.