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Per l'Italia è tempo di processi

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Loha detto amaramente a mente fredda: come avere tra le mani una Ferrari e restare inchiodati, impotenti, in seconda. Dopo un'ora e mezza di gara, un banale disturbo fisico ha spazzato dalla competizione Alex Schwazer, un anno intero di lavoro, migliaia di chilometri nella testa e nelle gambe di un grande atleta e un'affermazione a portata di mano. Con la mesta uscita di scena del marciatore sull'asfalto tedesco a quarantotto ore dalla conclusione dei campionati mondiali, saltano le residue speranze di una squadra cui non resta ormai che affidarsi all'estro e alle rivalse personali di Gibilisco sulla pedana dell'asta per uscire dall'anonimato di una classifica in cui trovano collocazione, con piena dignità, Panama e Portorico. Analizzando il bilancio azzurro, c'è da dire che poco o nulla sarebbe cambiato, nell'analisi e nel giudizio complessivo sulla squadra, anche in presenza di un successo dell'olimpionico. Né può essere motivo di consolazione trovarsi in compagnia, a due giorni dalla chiusura dell'evento, con un paese di forti tradizioni come la Francia - appesa ad un'unica medaglia di bronzo e a un rendimento complessivo di modeste proporzioni - né, d'altro canto, ritenersi parte di una crisi generale dell'atletica, arginata solo parzialmente da fenomeni isolati come quello espresso dai velocisti giamaicani o dall'invasione dei corridori africani, sollecitati sulle piste e sulle strade europee da guadagni altrimenti impensabili. Come sempre accade alla conclusione di una manifestazione in cui una disciplina, una struttura organizzativa, gli uomini che ai vari livelli la rappresentano, investono il meglio delle risorse umane, professionali e finanziarie disponibili, trovandosi al termine dell'evento con le ossa fiaccate e un bilancio tecnico compromesso, s'apre, adesso, la stagione dei processi. All'interno e all'esterno della Federazione. S'è già scritto come i primi, scadenti risultati di Berlino avessero in buona misura anticipato i segni di una crisi generale, e quali sarebbero dovuti essere, in tempi lunghi, i criteri per interventi radicali, tali da sottrarre l'atletica italiana a quella povertà di indirizzi programmatici che coinvolgono sia la crescita dell'alto agonismo sia, in proporzioni geometriche, la vitalità di base e lo sviluppo promozionale della disciplina. Prenderne atto negli ambienti interessati, e voltare pagina, sarebbe già un successo.

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