Olympiastadion una leggenda da arricchire
Prontial via, tutti, mentre su qualche pagina, dalle nostre parti, dilatando inconsapevolmente i confini della letteratura sportiva, si disserta se lo sprint sia ancora di una bellezza erotica, e mentre all'interno dell'Olympiastadion s'è in attesa dell'Owens del ventunesimo secolo, o di una copia dignitosa, sperando che la maledizione di un laboratorio non voglia un giorno ricacciarlo tra i dannati, come accadde in una infausta notte coreana di ventuno anni fa quando si scoprì che i muscoli di un giamaicano divenuto canadese erano, e da tempo, imbottiti di veleni. Mille, a Berlino, i controlli antidoping previsti, seicento effettuati prima delle gare, quattrocento in corso d'opera. Orine e sangue, sangue soprattutto, differentemente dalle abitudini del nuoto, anche se il criterio non impedisce che il doping sia abbondantemente avanti rispetto all'antidoping ed alla buona volontà di chi lo mette in pratica. Olympiastadion, il teatro del 1936, e pure dei Mondiali di calcio di Pirlo e Buffon e Zidane e della quarta Coppa italiana. L'Olympiastadion che nelle sue vecchie pietre porta incisi, secondo un'etica di sport che ignora barriere ideologiche e razziali, i nomi dei vincitori di quei Giochi, bianchi e neri, gialli e rossi. E quindi John Lovelock, neozelandese, primo nei 1500, medico, travolto tredici anni dopo dalla metropolitana di New York. E Kitei Son, coreano, costretto a correre e vincere la maratona sotto maglia giapponese. E Dhyan Singh Chand, leggenda indiana dell'hockey, il cinquantaduenne cavaliere tedesco Friedrich Gerhard e la tredicenne tuffatrice statunitense Marjore Geshing, e Trebisonda Ondina Valla nei suoi ostacoli vincenti e l'immensa lama di Giulio Gaudini e la nazionale universitaria dell'alpino e giornalista sabaudo Vittorio Pozzo. Tutti raccolti nella libertà creativa ed estetica dei quattrocento chilometri di pellicola girati dalla mirabile Leni Riefensthal, dove ad Hitler vennero riservati meno di due minuti ed a Jesse Owens il ruolo di John Whayne alla testa dei cavalieri del Nord-Ovest.