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L'acquamania conquista la Capitale

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«SeTania faceva un doppio carpiato rivoltato con mezzo avvitamento vinceva lei e no' quella cinese tutta perfettina», dice la sora Cesira alla portiera, che allarga le braccia e alza gli occhi al cielo in segno di sconsolato assenso. Cento metri più là, al bar, Romoletto contesta gli schemi della nazionale di pallanuoto. «Se coll'omo in meno Campagna continuava a difende in pressing invece che a zona l'americani nun ce batteveno», si lamenta con la cassiera rumena, che non capisce ma fa segno di sì per educazione. L'acquamania da Mondiali dilaga fra i romani, più pandemica dell'influenza suina, trasfigurandoli in esperti di attività astruse quali i tuffi e il nuoto sincronizzato (che fino all'altro ieri tutti pensavano fosse soltanto il remake dei cinematografici balletti acquatici di Esther Williams), roba che neppure io – nonostante una vita trascorsa in piscina prima come figlio di atleta, poi come atleta e infine come giornalista – ho mai imparato a decifrare appieno. 25 anni dopo Azzurra, quando a Piazza dei Mirti si parlava solo di Cino Ricci e delle sue strambate, il fenomeno si ripete, uguale a se stesso e ai cento precedenti di quest'era di tv globale, dalle scodate degli sci di Tomba alle parate in quarta della Vezzali, dai volteggi di Yuri Chechi agli otsuri-goshi della Quintavalle. Il grande sport seduce e conquista, calamitando la gente davanti al teleschermo e drogandola coi suoi effluvi incantatori. Sui romani, poi, l'inebriante pozione esercita i suoi effetti con particolare efficacia, perché il loro dna ha appositi recettori, sviluppatisi duemila e passa anni fa a forza di giochi termali e ciclicamente stimolati da eventi come questa meravigliosa kermesse, che nel suo fascino azzurro e luminoso rimanda la mente di chi c'era più all'epica Olimpiade del 1960 che al precedente appuntamento iridato del '94. In questo senso, la mancata realizzazione del nuovo polo acquatico-sportivo di Tor Vergata è stata una fortuna. Perché, lungi dal risultare un ripiego, il Foro Italico si è confermato luogo d'elezione per attività di questo calibro e significato, un gioiello architettonico non fine a se stesso (tipo i rutilanti colossi tutta tecnologia ai quali i cosiddetti paesi emergenti ricorrono per mostrare i muscoli) ma pensato e realizzato a misura d'uomo e nel rispetto dei valori del passato. Guardando l'altra sera in tv un «beauty shot» aereo del Parco del Foro Italico scintillante di luce nel buio, sono stato risucchiato indietro nel tempo da un flash back. Mi sono ritrovato seduto sulle piastrelle rosse dello Stadio del Nuoto, ai bordi della vasca dei tuffi, durante una dolce notte di settembre del 1960, mentre la folla celebrava la medaglia d'oro del Settebello con una struggente fiaccolata. Odore di cloro nell'aria, l'inno di Mameli, un groppo in gola, le migliaia di fiammelle rossastre sullo sfondo nero del cielo: un luogo dell'anima. E mi sono reso conto di quanto, malgrado tutto, siamo fortunati noi romani.

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