Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Nel '38 i francesi piansero tre volte per colpa nostra

default_image

  • a
  • a
  • a

Condottocon infallibile maestria da Piero Gubellini, purosangue principe del vivaio coltivato dalla ruvida sapienza di Federico Tesio, il quattro anni Nearco trionfava il 26 giugno all'ippodromo di Longchamp nel Grand Prix de Paris, costringendo il compassato Le Figaro a titolare, l'indomani, a «Le cheval du siècle». Il 21 luglio, recuperando con gli interessi il successo naufragato l'anno precedente nell'acqua di un torrente, le «divin grimpeur» Gino Bartali aveva seminato gli avversari sulle feroci vette del Tour de France, secondo vincitore italiano dopo i successi di Ottavio Bottecchia del '24 e del '25. Ma, per i francesi, l'impatto più disastroso con lo sport italiano s'era verificato appena prima, nelle prime due decadi di giugno, con la Francia liquidata (3-1) dall'Italia nei quarti di finale della Coppa del Mondo di calcio, con le successive affermazioni degli azzurri sul Brasile (2-1) e sull'Ungheria (4-2, due reti ciascuno per Piola e Colaussi), e con l'apoteosi finale collettiva della squadra guidata da Vittorio Pozzo. Quel successo calcistico fu molto più d'una pagina di sport. Legittimò, innanzitutto, la vittoria degli azzurri nella precedente edizione dei Mondiali (1934) sul terreno familiare dello stadio Nazionale di Roma. In secondo luogo, fu conferma del ruolo assunto in pochi anni dallo sport italiano nel panorama internazionale, ruolo esaltato dal secondo e dal terzo posto nelle classifiche olimpiche per nazioni a Los Angeles e a Berlino. Che poi quei successi venissero in Francia identificati come una conquista del regime fascista rendeva il raccolto azzurro, oltralpe, ancor più indigesto. Il cammino verso l'affermazione ai Mondiali non fu agevole. Basti l'esempio della partita inaugurale contro la Norvegia, con il tifo dello stadio di Marsiglia reso rosso dalla presenza di fuoriusciti italiani. Di quella partita fece resoconto lo stesso Vittorio Pozzo, tecnico e padre di una compagine di raro amalgama, cui molto interessava la dignità nazionale. «Al nostro saluto con il braccio alzato, ci accolse una bordata di fischi...quanto sia durato quel putiferio, non saprei...poi, il fracasso cessò...avevamo appena messo giù il braccio, che la dimostrazione riprese violenta...ordinai nuovamente il saluto a braccio alzato, come a confermare che non avevamo paura...la contestazione durò molto meno...avevamo vinto la battaglia della intimidazione...a gara finita, passai attraverso la massa di coloro che si erano inviperiti contro di noi, mi riconobbero, ma non mi dissero nulla». Al loro rientro in Italia, li attendeva palazzo Venezia.

Dai blog