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Bryant trascina Los Angeles alla vittoria del titolo Nba

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Il più grande infatti è lui, Black Mamba, al secolo Kobe Bryant, uno che quando era bimbo ed iniziava a giocherellare con una palla da basket è cresciuto a «turtlen» e piadina dalle parti di Reggio Emilia dove il papà Joe spendeva gli ultimi anni di una carriera da giramondo passata a bucare le retine avversarie. E buon sangue non mente tanto che Kobe s'è impossessato del titolo di Mvp di questa serie finale stravinta dai Los Angeles Lakers sugli Orlando Magic per 4-1. Il punto della staffa è arrivato in trasferta con un sonante 86-99 che ha raccolto i rispettosi applausi dei tifosi avversari e scacciato via le titubanze delle due prime gare casalinghe allo Steaples Center certificando un successo figlio di tanti padri. Di Bryant appunto, che ai Lakers è voluto restare anche dopo che si era chiusa l'era dell'accoppiata con Shaquille O'Neal (che aveva prodotto il «threepeat» con le tre vittorie accanto al centrone poi fuggito per altri lidi seminando veleni sull'ex compagno) e che è saputo riemergere con forza dalla brutta storia giudiziaria di un presunto stupro, cancellata poi da un verdetto a suo favore. Ma è anche il successo del coach zen Phil Jackson che per la decima volta si metterà al dito l'anello della vittoria, staccando una leggenda come Red Auerbach che alla guida di Boston ne ottenne nove. È la vittoria dei gregari di classe, come Ariza o Fisher, l'uomo delle triple impossibili, del solido Odom, di Bynum e di uno spagnolo che nella Nba si era fatto il nome di un giocatore non vincente. Ed invece Pau Gasol, arrivato da Memphis, dopo aver mietuto trofei con la sua Nazionale è stato l'uomo che ha cambiato, illuminato dalla classe di Bryant, il volto dei Lakers. I suoi centimetri, la sua adattabilità, il suo sangue caliente sono stati l'arma in più per un successo che, al di là del pronostico sulla finale azzeccato dal Presidente Obama, non era stato preventivato quando la stagione era partita. Doveva essere l'anno della possibile conferma di Boston, spentasi sui guai al ginocchio di Garnett e poi quella dei Cavs del predestinato James. Ma Cleveland s'è mostrata immatura lasciando spazio a Orlando che però ha visto Howard, Superman per i suoi tifosi, spegnersi di fronte alla krytponite Kobe. Ed a Los Angeles è stata festa, non senza i soliti incidenti domati dalla polizia locale. E qualche tappo di lambrusco è saltato anche a Reggio Emilia per le gesta di quel bambino che correva appresso ad una palla che oggi è il numero uno della Nba.

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