Fabrizio Fabbri Per l'addio di Dejan Bodiroga alla Virtus Roma manca, a meno di ribaltoni che spolvererebbero di ridicolo una situazione già paradossale, l'ufficialità.
Rimprovera,ma varrà la pena di ascoltarlo dalla sua voce se prima o poi deciderà di rompere un inspiegabile silenzio, all'ambiente, ai tifosi, alla stampa, ai siti internet di critiche preconcette (quasi che la sue scelte fossero un dogma inattaccabile) non capendo lo sforzo compiuto. Per capire, caro Dejan, bisogna saper spiegare e, scendendo dal piedistallo, anche ammettere i propri errori. Osannato a ragione come giocatore da dirigente esordiente ha faticato a gestire la pressione dei giudizi negativi. Jennings, Douglas e Brezec alcuni nomi per capire come per l'ex numero 10 fosse molto più semplice farsi beffe di un avversario sul parquet che scegliere un giocatore adatto alla chimica di Roma. Nella nuova veste ha fatto cose buone: come ingaggiare Ukic, Jaaber e Hutson o arrivare a Datome. Oggi però nel suo cuore vede, confuso dai sussurri di chi lo ha adulato aprioristicamente, l'ingratitudine dell'intera città. Che è la stessa che gli tributò oltre 10 minuti di standing ovation il giorno dell'addio mentre Siena banchettava, come consuetudine degli ultimi anni, sulla Virtus. Quella squadra che i tifosi amano e che la stampa vorrebbe veder vincente. Operazione non riuscita con Dejan. Che non potrà certo sventolare la licenza triennale d'Eurolega come suo personale successo visto che la somma dei risultati che l'hanno prodotta porta a ritroso fino alla Lottomatica di Brunamonti. Già, Brunamonti. La scelta per la successione anche nel prevedibile ridimensionamento, altro motivo dell'addio di Bodiroga, è logica e a un passo. Basterebbe solo avere il coraggio di farla.