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Addio a Cannavò, una vita alla "rosa"

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Candido Cannavò

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Una vita in rosa senza retorica, ma con l'affetto e l'attaccamento di un figlio che un giorno, era il 1983, era salito di ruolo, diventando padre e tutore di quello che di lì a poco sarebbe stato classificato come il quotidiano sportivo internazionalmente più diffuso. Veniva da lontano, Candido Cannavò. Veniva dallo sport praticato, in Sicilia, a Catania, nelle file del centro universitario sportivo, trovando nell'atletica e nel mezzofondo la matrice culturale più esatta, più totale, più vicina a quello che fu dall'inizio il suo accostarsi, la sua filosofia, nel rapporto con il mondo ricco, articolato e pure disomogeneo dell'agonismo e dei suoi protagonisti. Un rapporto stretto, costante, duttile, profondo, esclusivo, con gli atleti, che fossero le ostentate celebrità dei rettangoli di calcio, i dominatori delle piste d'atletica, le epicità ciclistiche sulle strade dolomitiche o le semplici, commoventi gesta offerte dal mondo degli atleti disabili, un mondo cui aveva in tempi recenti destinato testimonianze tanto puntuali quanto umanamente affidabili nella loro autenticità. Diversamente dalla gran parte dei direttori di quotidiani sportivi, Candido aveva maturato una profonda esperienza professionale toccando più volte l'ambiente cosmopolita dei Giochi olimpici. L'aveva scoperto trentenne, con la generosità del provinciale, vivendo in presa diretta l'indimenticabile estate romana del millenovecentosessanta, quando il mondo sportivo, l'Africa di Abebe Bikila, l'Australia di Herb Elliott e di Dawn Fraser, l'America di Cassius Clay e di Wilma Rudolph e l'Italia di Berruti, Benvenuti, Delfino e Gaiardoni avevano toccato con mano la leggerezza e l'aristocrazia del messaggio olimpico, prima che le esasperazioni spettacolari, il doping e i mercati ne tagliassero, l'uno dopo l'altro, i rami più nobili. Aveva alimentato, quello stesso mondo, attraverso le successive scadenze quadriennali, maturando una rara capacità di intuire e talora di denunciare, con un lessico tanto prezioso quanto invidiabile nella sua semplicità, gli inarrestabili cambiamenti di una sfera della società ormai non più oasi, ma realtà progressivamente aperta alla globalizzazione della pratica agonistica e della comunicazione. Nel 2002, dopo diciannove stagioni alla testa del quotidiano, difensore, tra gli ultimi, delle ragioni autentiche della pratica sportiva, dopo aver contribuito in prima persona a individuare e a sostenere le giovani energie professionali che si accostavano alla Gazzetta, l'uomo di Catania aveva lasciato formalmente, per raggiunti limiti di età, la direzione della testata. Ma era rimasto in sella, quotidianamente, tutore di una famiglia che ancora per lunghi anni avrebbe trovato nell'irriducibile capitano di lungo corso un insostituibile consigliere. È quella stessa famiglia che oggi - insieme a quanti, vicini per età od esperienze, e non sono molti, e alle schiere di lettori di tutte le età, e sono centinaia di migliaia - ne patisce la scomparsa.  

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