Sono passati 36 anni, ma penso che ...
Nel tentativo di non annegare, indosso il salvagente della razionalità e mi dico che se Delio Rossi può, per certi versi, assomigliare davvero a Tommaso Maestrelli, e Formello non è troppo diversa dal vecchio centro di Tor di Quinto, tutto il resto è profondamente difforme, a cominciare da Lotito, che a papà Lenzini è accostabile soltanto per via della comune iniziale del cognome. Se le foglie sono differenti, però, l'albero sembra identico, e allora noi laziali ci rassegniamo a naufragare con dolcezza nel mare dei ricordi, e ci mettiamo a paragonare Zarate con Giorgione e Pandev con D'Amico, Ledesma con Frustalupi e Mauri con Nanni, Brocchi con Re Cecconi e Foggia con Garlaschelli, Liechtesteiner con Facco e Radu con Martini, Carrizo con Pulici e così via, di uomo in uomo, fino a deliziarci nel rivivere, grazie alla spocchia di Mourinho (che domenica sera non ha saputo far meglio che sminuire il nostro primato trattandoci da morti di fame) il gusto che provammo quando il più spocchioso allenatore di tutti i tempi, il mago Helenio Herrera, dopo un derby in cui la sua Roma era stata umiliata non seppe trovare altre scuse che sfidare l'autore del gol della vittoria, Nanni, a ripetere la prodezza. Quella Lazio povera ma bella non conquistò lo scudetto. Nell'ultima giornata, quella decisiva, i potenti dell'epoca riuscirono a ristabilire l'ordine costituito coi soliti mezzi: la Lazio fu aggredita a sassate al suo arrivo in pullman allo stadio di Napoli, dove finì per perdere in un clima da incubo mentre la Juventus vinceva all'Olimpico grazie alla scandalosa arrendevolezza della Roma e a un gol di Cuccureddu da metà campo. Però resta la più bella che io abbia visto, e non solo per come giocava ma anche perché più di ogni altra sapeva dare carne e ossa alla «lazialità», a quel modo d'essere sportivi che ci rende così diversi da tutti gli altri.