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Così è nata la religione Rossa

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Con Enzo Ferrari in vita, la Scuderia ha vinto 93 Gran Premi di F1. 94, a volerci aggiungere il miracoloso successo di Monza 1988, giunto meno di un mese dopo la morte del Fondatore grazie al fatto che Senna commise uno dei due unici errori della sua carriera quand'era comodamente in testa. Altre 9 vittorie, le tre del 1989 e la sei del 1990, sono venute durante una sorta di interregno Fiat. Ma la rimanente metà, una striscia di 103 cominciata nel luglio del 1994 (Berger nel G.P. di Germania) e giunta, per ora, al giugno di quest'anno (Massa nel G.P. di Francia), appartiene alla gestione di Luca di Montezemolo, l'uomo che è riuscito a restituire a un'Azienda che sembrava ripiegata su se stessa («Ah, quando c'era Lui!...») la capacità di guardare avanti e di puntare all'eccellenza assoluta. Le corse descrivono meglio di ogni altro evento la vita della Ferrari Automobili S.p.A. perché fanno indissolubilmente parte della sua «mission» e del suo karma. La Ferrari è nata per costruire macchine da corsa che poi venivano vendute. I clienti degli albori erano piloti gentlemen, tant'è vero che alcune delle più leggendarie vittorie delle vetture col Cavallino Rampante sono venute ad opera di equipaggi privati. Questo spiega perché nel vissuto ancestrale dell'Azienda i 14 titoli mondiali Marche, le 9 «24 Ore di Le Mans», le 8 Mille Miglia, le 7 Targhe Florio e le centinaia di altri successi in tutti i tipi di competizione, per una ventina d'anni han pesato più delle tormentate vicende della F1, la quale, sebbene condividesse piloti, tecnici, meccanici, materiali e tecnologie con le corse per vetture Gran Turismo e/o Sport, talvolta assorbiva energie e risorse in eccesso rispetto alle priorità «commerciali». Chiaro che la Ferrari non poteva non correre i Gran Premi: ne sarebbe andata di mezzo la sua immagine di eccellenza assoluta in termini di prestazioni e di «non plus ultra» nel campo della tecnologia automobilistica. Però la convivenza fra i due tipi di impegno divenne di anno in anno più onerosa e ad un certo punto, all'inizio degli anni '70, diventò indispensabile scegliere fra ruote coperte e ruote scoperte. Si optò per la F1 un po' perché stava diventando sempre più popolare e importante a danno delle altre competizioni automobilistiche e un po' perché, ormai, con l'ingresso della Fiat nella proprietà, la fabbrica di vetture stradali viveva di vita propria e adottava nuove strategie di marketing. Non c'è comunque dubbio che la F1 abbia prima contribuito alla nascita della religione rossa e poi ne abbia determinato la definitiva affermazione su scala mondiale. Oggi Formula 1 e Ferrari sono quasi sinonimi e, oggettivamente, senza la seconda la prima non ci sarebbe neppure, perché se è vero che la Ferrari ha l'obbligo genetico di competere è ancor più vero che senza le macchine rosse e i milioni di integralisti che vanno in pellegrinaggio sui circuiti o le adorano in tv i vari Ecclestone, Mosley, Ron Dennis, Briatore e compagnia bella dovrebbero chiudere bottega e trovarsi un lavoro. Le vicende della Ferrari in F1 si articolano, per grandi linee, su quattro periodi storici. Il primo è quello degli anni '50, nei quali la Scuderia capitalizza la grande esperienza di corse del Fondatore e l'energia creativa dei suoi collaboratori per affermarsi come forza innovatrice. Vince quasi subito il suo primo G.P. - nel luglio 1951, a Silverstone, Inghilterra, con l'argentino Froilan Gonzalez - e subito dopo, nel 1952 e 1953, i primi due titoli mondiali con Alberto Ascari, grazie a una vettura, la 500 F2, che in tutto quest'arco di tempo perde una sola gara, stabilendo un record destinato a rimanere imbattuto. Sono anni mitici, esaltanti e atroci allo stesso tempo. I trionfi e le tragedie si accavallano, dipingendo a tinte fortissime, indelebili, un quadro che ancor oggi condiziona il nostro inconscio modo di percepire le corse automobilistiche. La Ferrari torna iridata nel 1956 con Fangio e bissa due anni dopo con l'inglese Hawthorne in quello che resterà un anno maledetto: durante la stagione muoiono in gara Collins e Musso e lo stesso Hawthorne si ammazzerà in un incidente stradale tornando a casa dal party in cui aveva festeggiato il titolo. Sarà, quello, l'ultimo mondiale di una vettura a motore anteriore, perché in F1 si stanno affacciando forze nuove - i piccoli costruttori inglesi, quelli che Ferrari sprezzantemente chiama «i garagisti» perché assemblano pezzi acquistati anziché costruirseli - che portano innovazioni, tipo i telai tubolari e il motore posteriore, difficili da accettare per i vecchi guru della meccanica di Maranello. Il secondo periodo sono gli anni '60 e l'inizi degli anni '70. L'Italia è in pieno boom economico, e la Ferrari è nel guado: conservare la dimensione artigianale o assumerne una industriale? Quest'incertezza si riflette sui risultati sportivi e nel tourbillon di uomini e di tecnici che si alternano alla corte del Cavallino. La prima Ferrari a motore posteriore, la 156, vince con Phil Hill il titolo 1961, funestato però dalla tragedia di Von Trips alla Parabolica di Monza. In tutto il decennio ci sarà soltanto un bis, quello del 1964, con John Surtees, unico pilota della storia a conquistare l'iride sia in motocicletta che in automobile.Sono anni duri. Si riaffacciano i grandi costruttori, rimasti lontani dalle corse fin dal ritiro della Mercedes seguito all'apocalisse di Le Mans 1955 (82 morti in tribuna). La Ford produce e mette in vendita un motore potente, economico e affidabile, il mitico V8 Cosworth, che permette ai «garagisti» di prendere il sopravvento. Ferrari è in difficoltà, si indebita, non riesce più a gestire tutto in prima persona. Così vende la fabbrica alla Fiat e si concentra sulla F1, restando tuttavia a digiuno di mondiali fino al 1975, quando Niki Lauda e il giovane Montezemolo, suo direttore sportivo, chiudono dopo 11 anni la parentesi buia portando al trionfo le geniali innovazioni del progettista Forghieri, il V12 boxer e il cambio trasversale. Comincia così il terzo periodo - complesso e tempestoso - della storia del Cavallino in F1, fatto di altri due trionfi ('77 con lo stesso Lauda, e '79, con Scheckter), di polemiche e di convulsioni. Con l'arrivo della Renault si apre l'era del turbo e, soprattutto, quella dell'invasione dei Grandi Costruttori. Decollano le audience televisive e il vecchio mondo delle corse inizia la sua trasformazione in show-business globale e ipermiliardiario. Lauda sbatte la porta, Ferrari azzecca la mossa-Villeneuve, che diventerà il pilota più amato pur vincendo relativamente poco, ma ci mette qualche anno di troppo a capire che la tecnologia della F1 sta diventando figlia sempre più dell'industria aerospaziale e sempre meno di quella automobilistica. È così soltanto nel 1982 che, con la realizzazione della nuova Gestione Sportiva, comincia una faticosa rincorsa - culturale, organizzativa e finanziaria prima che tecnologica - che, anche per la pausa indotta dalla morte del Fondatore, sarà destinata a concludersi con successo soltanto 18 anni dopo, nel 2000, quinto anno dell'era «Todt-Schumacher», quarto periodo della nostra storia, aperto nel 1993 dall'ingaggio del manager francese da parte del presidente Montezemolo e tuttora in corso.In totale, i 206 G.P. Vinti dalla Ferrari hanno fruttato 15 titoli mondiali Piloti e altrettanti Costruttori. Nessuno ha mai fatto - e probabilmente farà mai - di meglio.

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