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Gianfranco Giubilo Lo spettacolo ...

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Tanto schiacciante è stata la superiorità espressa dalla giovane formazione di Aragones, la sola partita senza vittoria è stata quella pareggiata con l'Italia e poi risolta dalla maggiore lucidità ai calci di rigore. Che non rappresentano, come qualcuno superficialmente afferma, una sorta di roulette, ma che invece sono espressione di una superiorità di risorse atletiche e soprattutto mentali, quelle risorse che avevano consentito agli Azzurri, due anni prima a Berlino, di issarsi per la quarta volta sul tetto del mondo. Gli spagnoli hanno siglato quattro vittorie nei tempi regolamentari, segnando undici reti e concedendone appena tre, tutte nella prima fase. Ma soprattutto nella semifinale, contro i russi che avevano spazzato via i sogni di rinascita dell'Olanda, gli spagnoli hanno dimostrato di poter giocare con cinque centrocampisti centrali, senza che gli equilibri soffrissero di questa teorica incongruenza tattica. Merito di gente che sa dare palla di prima, precisa, e immediatamente conquistare una posizione che detti al compagno il più agevole degli appoggi, conquistando terreno e infischiandosene perfino dell'occasionale latitanza di una punta illustre come Torres, il gol arriva comunque. L'infortunio occorso a David Villa ha prodotto l'inserimento di Fabregas, racccapricciante averlo visto in panchina, facile che Aragones, per testone che sia, riproponga lo stesso modulo a una punta. Questa Spagna, arrivata alla sua seconda finale europea, dopo avere vinto quella del '64 in casa e perso quella di vent'anni più tardi contro i francesi a Parigi, non ha altri significativi attestati in campo internazionale, ai Mondiali non è mai riuscita non soltanto a vincere, ma neanche a giocarsi l'episodio decisivo. Un suo limite, ma anche lo scaramantico conforto che la legge dei grandi numeri è solita offrire. Di contro, è sontuosa la storia calcistica della Germania, prima Ovest e poi riunificata: sette le finali di Coppa del Mondo, tre vinte su Ungheria ('54), Olanda ('74) e Argentina ('90), le sconfitte contro Inghilterra ('66), Italia ('82), Argentina ('86) e Brasile (2002). Cinque le finali in Europa, con tre titoli: sull'Urss ('72 e '88) e sul Belgio ('80), battuta ai rigori dalla Cecolosvacchia nel '76, il «cucchiaio» di Panenka, e nel '92 dall'intrusa Danimarca, giocatori richiamati dalla spiagge per rimpiazzare l'esclusa Jugoslavia. Tante le occasioni nelle quali i tedeschi, partiti da posizioni di retroguardia nelle previsioni della vigilia, avevano raggiunto traguardi prestigiosi, da sempre il loro carattere e la loro convinzione smentiscono le previsioni. Stavolta i tedeschi erano partiti addirittura in prima fila nelle preferenze degli scommettitori (non dei bookmakers, che le loro quote basano sull'afflusso di gioco), hanno perduto credibilità lungo il cammino: non soltanto per il capitombolo di fronte ai croati, ma anche per gli stenti patiti in semifinale di fronte alla mutilata Turchia. Tra questi due episodi, però, la perla di una legittima vittoria sul favorito Portogallo, che la dice lunga sulla capacità dei tedeschi di trovare i motivi migliori nelle situazioni più complesse. Dunque una speranza anche per una finale, che proprio per questo sarebbe azzardato definire a senso unico.

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