Se la ricorderà, Roberto Mancini, la duecentesima panchina ...

Ripenso a Mancini, che si è presentato a taccuini, microfoni e telecamere con l'aria del bravo ragazzo che concede generosamente agli avversari «si, meritavano di pareggiare» e non accusa il minimo rossore dopo avere levato per mesi e mesi alti lamenti sull'ingiustizia arbitrale fino a quando non l'hanno chetato con uno scudetto di cartone. Il Mancini che ho conosciuto io, appena adolescente, all'esordio bolognese, ha imparato presto a gustare l'amaro sapore della sudditanza psicologica, piatto forte del calcio di provincia; e anche alla Sampdoria, che fatiche - e quanti soldi di Mantovani - per vincere uno scudetto, eppoi fallire. Ha forse dimenticato tutto, adagiandosi cinicamente nell'alcova del potere, carezzato da una critica che grida allo scandalo solo quando le conviene? Già che c'era, il mio vecchio Mancio, poteva compiere anche lui un miracolo: ammettere onestamente che Inter-Parma era stata una grottesca esibizione di incompetenza arbitrale e di prepotenze padronali, con quel rigore negato ai parmigiani e quell'Ibrahimovic irridente come l'«esultate» risuonato a San Siro. Ieri mattina, a «Radio anch'io», un altro interessato agli effetti dello scandalo di Milano, Luciano Spalletti, non ha presentato, con adeguati lamenti, il conto dei suoi danni, di una Roma che poteva trovarsi a quattro punti dall'Inter, ma mi ha detto «penso piuttosto a Di Carlo, alla notte che ha passato e all'amaro risveglio con il peso di dovere spiegare ai suoi ragazzi che bisogna andare avanti con serenità e fiducia». Già: anche in questo calcio si può essere sportivi. É terzo tempo anche questo.