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La boxe uccide

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ma è educativa e risparmia vite

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Quelle inutili tavole rotonde (le chiamano così anche quando sono quadrate), quegli inutili processi che spesso si svolgono nei pressi di una camera mortuaria e dai quali non uscirà mai un verdetto sereno. La prima volta che ne ho scritto su questo giornale è stato nel marzo del 1963 dopo che Davey Moore era morto dopo essere andato k:o: alla decima ripresa contro Sugar Ramos in un incontro valevole per il titolo mondiale dei pesi piuma. Erano i tempi in cui c'erano solo otto categorie di peso ed un solo campione del mondo per ciascuna categoria. Mi chiese un parere Dante Pariset che scriveva con molta eleganza di boxe per il Tempo. Dissi allora - e lo penso ancora oggi - che la boxe è pericolosa, può uccidere ma muore meno gente perché c'è la boxe. Se volete un esempio sono convinto che se Mike Tyson non avesse fatto il pugile probabilmente sarebbe stato ucciso o avrebbe ucciso, un modo per dire che il pugilato svolge una preziosa opera di educazione in ambienti molto difficili. Questa volta è toccato al coreano Yo-Sam Choi, deceduto dopo un incontro per il titolo intercontinentale WBO dei pesi mosca nel quale aveva subito colpi durissimi nelle ultime fasi della dodicesima ripresa. La particolarità è che lo sfortunato Choi il match lo aveva anche vinto. Choi era stato campione dei minimosca WBC tra il 1999 ed il 2001 prima di essere messo k.o. dal messicano Jorge Arce. I titoli «intercontinentali», i mondialini ed altre etichette del genere sono delle sottomarche usate per dare importanza ad incontri che non la meriterebbero. Purtroppo portano alla ribalta pugili mediocri obbligandoli a combattere sulle 12 riprese quando 6 oppure 8 sarebbero più adeguate al loro valore ed alla loro esperienza. Il pugilato è l'unica disciplina sportiva che non ha una Federazione Internazionale universalmente riconosciuta. Ne avrebbe bisogno per essere sottratto a quelle organizzazioni che hanno usato quasi tutte le lettere dell'alfabeto (WBC, WBA, WBO, IBF, ecc.), coprono interessi privati e soprattutto non difendono la serietà e la regolarità di una disciplina che meriterebbe dirigenti particolarmente preparati proprio per la sua specificità e la sua pericolosità. Moriranno altri pugili ma il pugilato non morirà mai. Ci saranno meno vocazioni perché si tratta di uno sport che richiede sacrifici enormi di fronte al miraggio di gloria e ricchezze che premieranno solo pochi campioni.

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