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di GIANFRANCO GIUBILO Vi sarà ...

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Del Liedholm giocatore, avendo avuto la fortuna di ammirarlo, posso affermare che apparteneva al ristretto clan dei fuoriclasse, forse numeri stilistici appena inferiori alle leggende della categoria, però il vantaggio di poter soccorrere il talento con una straordinaria intelligenza, dote che avrebbe segnato tutto il suo lungo cammino nel mondo del calcio, prima in campo e poi in panchina. La sua carriera in maglietta e pantaloncini aveva già indicato, senza possibili dubbi, un sicuro avvenire nel mestiere che molti grandi giocatori intraprendono dopo il ritiro agonistico: pochi però con la vocazione di Nils, che Dino Viola riuscì a riportare nella Capitale all'inizio degli Anni Ottanta, una mossa che avrebbe fatto dimenticare le melanconiche vicende della Rometta. Era un ritorno a casa, dopo un lontano terzo posto firmato proprio da Liedholm, e ricordo vividamente come nacque la sua zona, che avrebbe prodotto in poco tempo una Roma già competitiva ai massimi livelli. Ero in compagnia di Viola, un paio d'ore prima della chiusura del mercato, quando Liedholm arrivò per rivelare al presidente che con pochi soldi si sarebbe potuto avere dal Milan Turone. All'obiezione di Viola, abbiamo già Santarini, Nils oppose subito: «Nessun problema, giochiamo a zona». Questo per dire di una delle tante felici intuizioni di un percorso che avrebbe portato i romanisti a festeggiare il secondo tricolore della loro avara storia, più di quarant'anni dopo la prima conquista, degli anni della guerra. Mi sembra riduttivo, tuttavia, soffermare il discorso sul grande giocatore e sullo splendido allenatore e maestro che Liedholm è stato: e non soltanto a Roma, come testimonia lo scudetto della stella milanista, vinto prendendo in giro mezzo mondo con quel Maldera promosso a spauracchio delle difese e soprattutto dei tecnici occasionalmente rivali. Nils è stato, e non soltanto per me che allo svedese ero legato da un'amicizia profonda e sincera, un'antologia senza fine di aneddoti, di giudizi sottili e talvolta un po' perfidi, di conoscenza dell'animo umano. Si parlava a lungo di tutto, anche di questioni tecniche, Liedholm sapeva bene che la sua fiducia non sarebbe stati mai tradita, molto più preziose, la stima e l'amicizia, di uno scoop da quattro soldi. Ci vorrebbero dei volumi, per condividere con tutti il prodotto del suo straordinario senso dell'umorismo, però qualcosa merita di essere ricordato. Come l'olimpica calma con la quale rispondeva a chi gli faceva notare che Di Stefano, marcato da lui, aveva segnato tre gol: «Vero, però non ha fatto altro», O come quando raccontava che a San Siro, dopo un bel po' di partite in rossonero, aveva ricevuto l'applauso corale della folla perché, spiegò, aveva sbagliato il suo primo passaggio. E ancora la leggenda della traversa colpita che aveva rimandato il pallone a metà campo, i ricordi della finale mondiale che lo aveva opposto al sedicenne Pelè. E poi, la sua profonda conoscenza di tutti gli sport, con qualche riserva sul cricket che, sosteneva, pretendeva dai praticanti un troppo modesto tasso di intelletto. Negli anni più recenti aveva fatto ancora parte della famiglia romanista, pronto a offrire il suo contributo di saggezza e di esperienza. Con quel garbo e con quella signorilità che lo avevano fatto amare dai giovani che era solito aggregare alla prima squadra, preannunciandone l'esordio dopo una domenica foriera di polemiche per distrarre i cronisti da altri più scomodi agromenti. Ma quello di oggi non era più il suo calcio, quello non era più il suo mondo. Nel giorno dell'addio, giusto dedicargli un saluto guidato da affetto senza confini, con inconsolabile nostalgia.

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