L'angolo del romanista
Prendiamo la bombetta e via fuori: "Oh my God!", sussurriamo, mantenendo il nostro aplomb. Ma come? Noi siamo proiettati verso l'algida Britannia, pensiamo in inglese, pronti ad occupare civilmente l'Old Trafford e i queruli laziali tentano di ricondurci alla vexata quaestio metropolitana? Noi festeggiamo i cinquant'anni dell'Europa rivendicando lo status internazionale della nostra Roma, e i parenti ci trattengono tra i Colli e l'Agro per ridefinire le gerarchie locali? Noi aristocraticamente sorvoliamo sul sacrosanto gol di Mancini, negato sulla scorta di volatili codicilli, e i cugini rispolverano l'abaco per calcolare la quota d'aggancio? Avevano ragione gli avi: la pax romana può essere sancita solo con una supremazia incontestabile e assoluta. Altrimenti gli aquilotti, dopo aver patito lontananze e subordinazioni, rialzano la testa e vagheggiano pernacchie al fotofinish. Per strada li riconosci subito, anche se in incognito: ammiccano al nulla, borbottano cifre e risultati virtuali, si dicono certi di vincere - quando sarà - a San Siro contro l'Inter già campione «perché c'è in ballo quel tal affare», etc. Si danno di gomito come Franco e Ciccio, come se nove punti fossero smarties da buttare giù in un fiato, si esaltano neanche avessero smazzolato il Brasile, piuttosto che l'ardimentoso Empoli. Quel che è peggio, si fanno sotto al romanista pacificato e cosmopolita minacciandolo col dito: «V'aspettamo ar derby de ritorno, cò Ledesma e Mutarelli», come se fossimo ancora sotto choc, come se vita e classifica non fossero andate avanti. A ciascuno il suo sogno: Totti potrà comunque presentarsi al distratto Sir Ferguson, che non lo conosce ancora. La Lazio andrà a letto fantasticando il Sorpasso. Come quello del film con Gassman e Trintignant. Di cui tutti ricordano il finale. s.mannucci@iltempo.it