di GIANFRANCO GIUBILO E COSÌ anche il colonnnello se ne è andato, un altro capitolo ...
Il grado militare era la solita copertura dei Paesi dell'Est europeo per giustificare uno stipendio di Stato per gli sportivi più illustri, come il mitico pugile Laszlo Papp e come quei giocatori della imbattibile Honved. Tutto in omaggio a quelle ridicole regole olimpiche sul dilettantisimo, per le quali anche l'Occidente aveva individuato comode scappatoie: in America quella dei college pronti a ospitare i figli dei ghetti negri purché corressero i cento metri in dieci secondi, in Italia l'invenzione di una squadra universitaria per i Giochi, fatta di gente che di un Ateneo non aveva visto neanche i muri perimetrali. Ottantatré reti segnate con la maglia della sua Nazionale in ottantaquattro partite, un prestigioso record agonistico e una carriera di allenatore non irrilevante in otto nazioni di quattro continenti, fino a maturare l'esperienza più significativa in Grecia, titolo nazionale e finale di Coppa dei Campioni per il suo Panathinaikos alla fine degli Anni Settanta. Ma naturalmente la figura del colonnello rimane legata soprattutto alla sua carriera di giocatore, iniziata quando non aveva ancora dodici anni e il papà, allenatore del Kispest di Budapest, lo faceva giocare con un nome falso per aggirare le norme federali sui limiti minimi di età. Fin dall'infanzia amico fraterno di Joszef Boszik, che in Nazionale avrebbe giocato 101 volte, Puskas divenne già nei suoi anni verdi una stella di prima grandezza della Honved, la più forte squadra ungherese di tutti i tempi: cinque i titoli nazionali conquistati, quattro volte capocannoniere del campionato, medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1952, il colonnello avrebbe conosciuto la sua prima vera amarezza due anni più tardi, nella finale del Mondiale di Svizzera a Berna. l'anno precedente, la grande Ungheria aveva ammutolito e indotto all'applauso corale la folla di Wembley, l'orgogliosa Inghilterra umiliata nel suo tempio, un 6-3 che sarebbe passato alla storia. Ma indimenticabile anche la lezione di calcio che gli Azzurri avevano dovuto ammirare senza possibilità di replica in occasione dell'inaugurazione dell'Olimpico di Roma, un 3-0 perentorio a un'Italia con tanti giallorossi in campo. E dunque l'Ungheria, che nella fase eliminatoria aveva rifilato ai tedeschi otto gol, era strafavorita, ma neanche il sinistro micidiale di Puskas, neanche il talento dei Boszik, dei Kocsis, degli Hidegkuti, dei Czibor fu sufficiente per avere ragione di una Germania Ovest fin troppo gasata, addirittura indemoniati i suoi Fritz Walter, Schaefer, Morlok, Rahn. Una vittoria frutto di risorse chimiche che avrebbero preteso in pochi anni un tributo agghiacciante di giovani vite. Dopo la rivoluzione del 1956 che, con l'Honved in tournée all'estero, avrebbe consentito comode richieste di asilo politico, Puskas divenne una bandiera del Real Madrid, a fianco di Alfredo Di Stefano e di Gento: sei titoli spagnoli, quattro volte «pichichi« (miglior marcatore) della Primera Division, una finale di Coppa dei Campioni vinta sui tedeschi dell'Eintracht con quattro gol del colonnello. Ci mancherà.