di GIANFRANCO GIUBILO UN monumento all'eleganza: nello stile, negli atteggiamenti ...
Il riserbo che ha circondato prima la malattia e poi il lento addio di Giacinto ha lasciato sbigottiti, quando è il peggio si è palesato, tutta la larga schiera di amici dei quali uno dei capitani storici della Nazionale si era guadagnato l'affetto, al di là della stima per l'uomo e per il campione. Come ricordo personale, mi resta quel ritaglio del mio giornale che Giacinto custodiva nel portafoglio, una pagella di una partita in azzurro nel quale lo avevo scherzosamente giudicato come un ragazzino promettente, paradosso che aveva gradito più di ogni apprezzamento tecnico vero e proprio. Nel calcio italiano, Facchetti lascia un segno che non sarà facile scalfire, anche per la sua straordinaria personalità, che negli ultimi anni lo aveva portato al vertice dirigenziale della sua amatissima Inter, purtroppo con amarezze superiori alle poche gioie. L'Inter lo aveva pescato, giovanissimo, a Treviglio, centravanti della locale squadra baby, capace di correre gli 80 metri in 8"9 ai campionati allievi di atletica leggera. Forse perché l'organico garantiva tanti protagonisti in attacco, felice fu l'intuizione di schierarlo a sinistra sulla fascia difensiva, intuizione subito raccolta da Helenio Herrera, che il suo goleador prediletto se lo era costruito nelle retrovie. C'è moltissimo, di Facchetti, nei trionfi nazionali e internazionali dei nerazzurri, ma c'è la sua impronta anche nella storia della Nazionale, novantaquattro «caps» in carriera, esordio a ventuno anni con la vittoria sulla Turchia a Istanbul, malinconica la partita di addio perduta a Londra contro gli inglesi, per le qualificazioni al Mondiale di Argentina. Un gigante, in tutti i sensi, un'immagine bella e limpida che rimarrà nella memoria, insieme con un rimpianto senza fine.