Polemiche nel mondo del pugiliato professionistico
La critica e gli appassionati si sono ormai abituati ad un assurdo frazionamento in tutte quelle sigle che hanno ormai utilizzato quasi tutte le lettere dell'alfabeto. In questa situazione si è verificato un fenomeno cui è stato dato il giusto rilievo e cioè che i quattro titolari delle cinture di campioni dei pesi massimi delle principali organizzazioni che tentano di controllare la boxe professionistica abbiano in comune una caratteristica: quella di essere di razza bianca e di appartenere a quattro paesi dell'ex Unione Sovietica. Ne hanno anche un'altra, che nessuno dei quattro è un campione autentico, vale a dire un pugile con le qualità sufficienti per reggere il confronto con i migliori pesi massimi del passato, recente o remoto. Il kazako Oleg Maskaev (classe 1969, campione per il WBC), il russo Nikolay Valuev (1973, WBA), il bielorusso Serguei Liakhovich (1976, WBO) e l'ucraino Wladimir Klitschko (1976, IBF) hanno complessivamente subito nove sconfitte e tutte per k.o. Vi risparmio l'elenco dei pugili che li hanno battuti ma vi assicuro che si tratta di autentiche mediocrità. Il solo Valuev, che si distingue soprattutto per le sue dimensioni ed il suo peso, è imbattuto ma i suoi limiti sono chiaramente espressi dalla modestia dei due pugili (Larry Donald e John Ruiz) contro i quali è riuscito ad ottenere due contrastati e non unanimi verdetti ai punti. Maskaev, l'ultimo arrivato, è finito k.o. cinque volte, Klitschko (probabilmente il migliore dei quattro) in tre occasioni, Liakhovich una sola volta ma contro un avversario, tale Maurice Harris, che ha nel record ben nove sconfitte prima del limite. E' superfluo ricordare che nella boxe non si può applicare la proprietà transitiva ed anche che è impossibile (ancorché affascinante) mettere a confronto atleti di epoche diverse ma è anche vero che il pugilato è anche lo sport che, nelle immagini cinematografiche e televisive, è invecchiato di meno. Voglio dire che se osserviamo i filmati di incontri di calcio degli anni trenta (ma anche più recenti), di basket, o di tennis ci rendiamo contro di come il progresso abbia inciso nella qualità delle prestazioni anche nelle discipline che non sono misurabili, con il metro o con il cronometro. Se invece osservate le immagini di Joe Louis o di Rocky Marciano vi rendete conto di come sia improponibile, ma in senso inverso, il confronto con i pugili di oggi. È corretta, oltrechè sorprendente, l'osservazione che i quattro campioni (si fa per dire) che sono oggi in possesso dei titoli dei pesi massimi, sono tutti di razza bianca. Senza scomodare la leggenda della Grande Speranza Bianca, nata all'inizio del secolo scorso quando gli americani non sopportavano di avere un campione del mondo (Jack Johnson) di pelle scura, è opportuno ricordare che da quando (1937) Joe Louis ha conquistato il titolo mettendo k.o. James Braddock, più noto come Cinderella Man, siamo arrivati agli anni duemila con le sole parentesi dello svedese Ingemar Johansson (1959) e del nostro Francesco Damiani (1989) come campioni dei pesi massimi di razza bianca. Purtroppo la qualità, che confermo modesta, degli attuali campioni impedisce di affermare che sia in atto una trasformazione razziale nella categoria dei pesi massimi. Tra l'altro nelle categorie più significative (welter e medi) i campioni di migliore qualità (Taylor, Hopkins, Wright) sono ancora di razza nera.