Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Il commento

Esplora:
default_image

Battaglia che lo sport non vincerà mai

  • a
  • a
  • a

Ricordo ancora le parole con le quali i commentatori Rai del Tour hanno chiuso il loro ultimo collegamento e cioè con l'auspicio che il ciclismo potesse essere finalmente pulito.Io li capisco perché tutti noi che seguiamo una disciplina sportiva vogliamo difenderla perché è un modo di difendere il nostro lavoro e la sua credibilità ma temo che Bulbarelli e Cassani debbano rassegnarsi così come coloro che difendono l'atletica leggera (quella pesante si salva perché ha minore visibilità) e tutte quelle discipline nelle quali il doping ogni tanto fa la sua sgradita apparizione. Non voglio apparire disfattista ma ho paura che questa battaglia lo sport non riuscirà mai a vincerla perché il doping, soprattutto quello organizzato, batterà sempre - se mi si passa il paragone tennistico - 6-1, 6-1 nei confronti dell'antidoping. È un concetto impopolare perché ha il sapore di una resa nei confronti di una truffa che è vecchia quanto lo sport anche se negli ultimi anni ha assunto dimensioni sempre più vaste e sempre più preoccupanti. Non credo che il fenomeno sia legato ai contenuti economici che lo sport ha raggiunto, semmai si è dato una migliore e più sofisticata organizzazione, ma alla base c'è il desiderio umano di voler vincere e di essere disposti, per farlo, anche a mettere a rischio la propria salute. L'ultimo Tour era stato decapitato alla vigilia di alcuni protagonisti, tra i quali il nostro Ivan Basso, per le rivelazioni di un medico spagnolo che aveva spiegato di avere, tra i propri clienti, non solo molti ciclisti ma anche campioni di altre discipline. Del resto è in atto una forte polemica tra L'Equipe, e Lance Armstrong, il sette volte vincitore del Tour apertamente accusato di doping dal quotidiano sportivo francese: ora succede che Landis sia stato per tre anni gregario di Armstrong. L'impressione, giudicando dall'esterno, è che il mondo del ciclismo sia convinto che senza aiuti, più o meno leciti, non sia possibile sopportare la fatiche che una dura corsa a tappe impone. A questo punto, poiché il confine tra i vari tipi di aiuto è difficile da definire e soprattutto da difendere, è inevitabile che ogni tanto qualcuno cada nella tentazione o nella trappola. Dopo (ma anche durante) ogni Olimpiade le notizie sui caso di doping si sovrappongono ai risultati e spesso sconvolgono il medagliere. Ai Giochi è l'atletica che fa la parte del leone tanto è vero che l'episodio più importante e clamoroso è stato quello che è costato la medaglia d'oro dei 100 metri a Ben Johnson alle Olimpiadi di Seoul del 1988. Quell'episodio ha purtroppo lanciato due messaggi solo in apparenza in contrasto tra loro. Da una parte è stato detto: fate attenzione perché se tentate di barare, vi scoprono e la vostra carriera può essere rovinata. Dall'altra è stato confermato che aiutandosi si corre più forti. C'è un altro aspetto molto importante da considerare. Una squalifica per doping può macchiare e rovinare una carriera ma non toglie a chi si è aiutato la gioia che ha provato il giorno del successo, così come una vittoria a tavolino non compensa la delusione provata da chi è stato battuto sul campo. Il paragone è improprio anche perché il doping nel calderone di Calciopoli, è servito solo a mettere in atto quelle registrazioni che poi hanno fatto capire tante cose, ma volete mettere a confronto la gioia che i calciatori della Roma hanno provato quando hanno vinto lo scudetto con quella dei loro colleghi dell'Inter ai quali hanno detto l'altro ieri che non erano arrivati terzi, ma primi?

Dai blog