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di FULVIO STINCHELLI Chi s'intende di cavalli, di concorsi ippici in particolare, potrà capirci subito e bene.

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Fin lì, il «giro» è stato perfetto, zero penalità, Raimondo e il suo destriero sono adesso in vista dell'ultimo ostacolo, quello che decide. Quello che può mandarti in cielo o relegarti nel dimenticatoio. Cavaliere e cavallo lo guardano, lo mirano, quell'immenso ultimo ostacolo. E tra loro si parlano, grazie al filo rovente delle redini, con la stretta delle ginocchia sulla groppa vasta e generosa: «La vittoria è lì, oltre quelle quattro assi...»; lo so, le vedo…; «abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno... te la senti, si va, si va insieme?»; ma certo che si va, e andiamooo! Quel giorno andò, fu il «netto» con cui Raimondo e l'Italia equestre entrarono nel Mito. Adesso, vista da qui, la finale che va in scena stasera alle ore 20, Olympiastadion di Berlino, tra Italia e Francia, ci ripropone il ricordo di quel mitico percorso. E vediamo Marcello Lippi come Raimondo. La Nazionale come il Cavallo. Non crediamo, dal nostro angolino d'osservazione, che le cose più importanti, Marcello e la Squadra, se le siano dette per via orale. A nostro giudizio, lo scambio che conta è avvenuto per altre vie, attraverso fili diversi. Fili misteriosi. Fili magici. Giunto in vista dell'ultimo ostacolo, l'uomo ha ormai fatto tutto ciò che era in suo potere per mettere la cavalcatura nelle condizioni ottimali per compiere l'ultimo sforzo, il più arduo. L'uomo si coordina tra testa e garrese, stringe le ginocchia a cercare l'insieme, lascia le mani lievi e mira l'ostacolo tra le orecchie del cavallo. Perché, in quei momenti, le orecchie del cavallo parlano. Quando sono belle dritte e puntano in avanti è come se dicessero: ci siamo, me la sento, andiamo a vincere. «Bene, bello!», risponde il cavaliere. E si va, con la forza dei muscoli, dei nervi, e l'aiuto di Dio. Ora, io non so se Marcello Lippi s'intenda di cavalli, se abbia mai «montato». Probabilmente, in faccende pallonare affaccendato, non ha avuto tempo e modo di apprendere il nobile sodalizio. Un vero peccato, perché, in queste ore supreme della sua umanissima vita, quel «mestiere» gli sarebbe tornato utile per «leggere» tra le orecchie di Gattuso, di Cannavaro, di Toni, di Grosso (e, sì, di Totti): saprebbe ora, in anticipo, se l'avventura finirà in gloria, oppure - non sia mai! - tanto rumore italico debba annegare nel nulla. Ipse dixit, la Veranda.

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