Capello scappa a Madrid

Fabio Capello si è dimesso dalla carica di allenatore della Juventus. Si è presentato nella sede di corso Galileo Ferraris alle 13.25, accompagnato da un autista e, dopo un colloquio di poco più di mezzora con il presidente Giovanni Cobolli Gigli e l'amministratore delegato Jean Claude Blanc, ne è uscito alle 14.16 per farsi accompagnare a casa. Addio Torino, allora, e via verso la minestra riscaldata di Madrid, con presidente Calderon e in compagnia di Franco Baldini e Predrag Mijatovic. Capello lascia - come già era avvenuto a Roma e con la Roma due estati fa - dopo avere dato assicurazioni circa la sua permanenza e dopo avere negato la possibilità di andare davvero a Madrid. Peccato che, rispetto alla vicenda colorata di giallorosso, a Torino il suo giochino fosse stato scoperto prima, complice anche lo scandalo intercettazioni telefoniche: era infatti apparso quasi subito chiaro a tutti che il tecnico di Pieris non sarebbe mai sceso in serie B. La corte di Calderon a quel punto si è fatta più serrata e la cena di Lampedusa di inizio giugno, immortalata anche da inequivocabili scatti fotografici, non ha fatto altro che mettere il punto esclamativo su una situazione già chiara di suo. Capello lascia così Torino dopo due stagioni che passeranno alla storia per motivi extracalcistici. Di suo, assieme ai giocatori che hanno composto la rosa in questi ventiquattro mesi, ha vinto due scudetti restando sempre in testa al campionato (76 partite, per l'esattezza) non arrivando però mai a sfiorare la Champions League (eliminato il primo anno negli ottavi di finale dal Liverpool, buttato fuori pochi mesi fa nei quarti dall'Arsenal) né conquistando l'affetto dei tifosi. I quali lo hanno sempre sopportato e mai amato: troppo pesante il ricordo delle polemiche ai tempi in cui Capello lavorava a Roma, troppo evidente la sua poca attenzione verso Del Piero - bandiera della società e professionista esemplare -, troppo chiaro il fatto che la sua scelta di trasferirsi a Torino non fosse dettata da altro se non dalla certezza di avere alle spalle una società forte. La più forte, magari anche a dispetto delle regole del gioco: con Giraudo, Moggi e Bettega, dopo essersi detto peste e corna, era diventato grande amico al punto da definirsi «il quarto moschettiere» quando ancora nulla si sapeva dello scandalo. Si era detto pronto a restare fino alla scadenza del contratto (giugno 2007) «ma solo con la Triade», poi aveva cambiato idea e dato la propria «disponibilità alla proprietà». Il tutto, prima che la corte del Real si facesse insistente e, soprattutto, prima che scoppiasse il bubbone che raderà al suolo il «vecchio» calcio italiano. Cobolli Gigli, neo-presidente della Juve, aveva detto non più tardi di sabato che «con Capello ci vedremo il 12 luglio». Per un gelato, forse. Mentre uno tra Deschamps e Zaccheroni (o Donadoni, o Novellino) si sarà già detto onorato di sedersi sulla panchina di Madama.