L'OSSERVATORIO
Quando si nomina il Lecce, però, le sensazioni del popolo romanista scivolano nell'incubo, indelebile nella memoria quel pomeriggio di aprile di venti anni fa. La Roma aveva coronato un'incredibile rimonta nei confronti della Juventus, il calcio frizzante di Eriksson aveva conquistato applausi e consensi, la rivale sembrava arrancare vistosamente, all'Olimpico arrivava il Lecce già retrocesso e privo di apprezzabili stimoli. Una prospettiva che aveva però lasciato strada libera alle vacanze mentali, fino a produrre festeggiamenti sopra le righe e soprattutto in anticipo sull'evento, superficialmente valutato come scontato. E subito il gol di Ciccio Graziani: a confermare come tasso tecnico e classifica non potessero essere contraddetti, il tricolore ormai a portata di mano, nessuna apprensione per l'episodio conclusivo, la trasferta sul lago di Como. Poi il gol di Alberto Di Chiara, un ex, la doppietta di Barbas, l'inutile prodezza finale di Pruzzo, le paratone di Negretti, sconosciuto da queste parti. Ma quella grande delusione, figlia anche di un torpore mentale collettivo, aveva altre origini, la partita di Pisa dalla quale pochi avevano tratto i ragionevoli motivi di allarme. Ricordo, di quella trasferta, il viaggio di ritorno in aereo: stavo scrivendo le pagelle dopo avere trasmesso dallo stadio il commento sulla partita. Seduto accanto a me, Carletto Ancelotti mi chiese ragione di quei voti secondo lui troppo modesti, dopo una partita vinta per quattro a due. Gli spiegai, affettuosamente e tentando di non urtarne la suscettibilità, che avevo visto una Roma bollita, fortunata per avere concluso felicemente una partita cominciata male e rimediata in qualche modo, dopo però che Kieft si era divorato da due passi il gol del 3-1, che avrebbe anticipato di una settimana il destino dei giallorossi. La squalifica di Cerezo aveva indotto il centrocampo a un superlavoro, pagato pesantemente con l'arrivo delle temperature primaverili. Certo, se tutto fosse stato demandato all'ultima giornata, non è detto che le ultime stille di energia non si moltiplicassero, di fronte a un traguardo straordinario, però è tutto da dimostrare. Il Lecce che arriva oggi all'Olimpico, atteso con il rispetto che la scaramanzia, se non altro, impone, non è condannato dalla matematica, grazie alla vittoria sul Milan che ha procurato alla Roma un assillo doppio. Non soltanto i pugliesi restavano aggrappati a un filo di speranza, ma il Milan perdeva quella sicurezza nel secondo posto che la Roma avrebbe potuto sfruttare nella trasferta del Meazza all'ultima di campionato. Stavolta, almeno, non ci saranno i micidiali rituali delle celebrazioni anticipate: come quella sciagurata maglietta con il numero undici, già implicita ammissione di non poter superare quel traguardo, nella serie di vittorie messe in fila. Sicuramente questa Roma non soffrirà di cali di tensione, una volta valutato l'atteggiamento esibito nelle trasferte di Torino e Firenze, la condizione atletica è tuttora valida, altissima l'attenzione al traguardo del quarto posto. Nella speranza che i tre punti assegnati dal pronostico consentano a Spalletti e ai suoi di seguire con minore apprensione il posticipo serale, con la Fiorentina chiamata a confrontarsi con l'avvilimento della Juventus, ma anche la rabbia di una squadra con uno scudetto in tasca e contestata da un tifo ingeneroso. Mai che capitasse qui a Roma, di dover piangere per un addio all'Europa, però con simbolini tricolori a ripetizione cuciti sulle maglie!