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Katia e Mara Zini, Capurso, Fontana e Maffei regalano all'Italia la centesima medaglia dei Giochi

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Di gioia. Perché i giudici hanno squalificato la Cina, colpevole di una scorrettezza in occasione dell'ultimo cambio, e l'Italia ha vinto la sua decima medaglia dei Giochi, la centesima complessiva nella sua storia olimpica. Cifre tonde. Cifre belle. Cifre che fanno piangere, appunto. La staffetta dello short track è un qualcosa di strano. Una specie di frullatore dentro cui trova spazio di tutto: velocità, scaltrezza, abilità, furbizia, intelligenza. La pista è quella corta, non quella su cui pattina Fabris, tanto per capirci: 30 metri per 60, non fai in tempo a lanciarti che già devi dare il cambio a un compagno. E il cambio arriva spingendosi proprio, in un gioco di equilibri degno di acrobati fatti e finiti. Tremila metri così, con quattro atlete pronte a darsi il cambio e a rimanere appese a un filo, a una lama che potrebbe tradire da un momento all'altro. L'Italia schiera Arianna Fontana, Marta Capurso, Katia Zini e Mara Zini, cugine valtellinesi. Da contrastare ci sono Corea del Sud, Canada e Cina: paesi dove il freestyle è sport quasi nazionale, mentre in Italia è disciplina di nicchia. Le nostre partono guardinghe, sugli spalti striscioni in abbondanza e uno che rende l'idea più di altri: «Un pensiero ci attanaglia, la staffetta da medaglia». A Salt Lake City, quattro anni fa, le azzurre giunsero quinte, questa è la loro prima finale olimpica. Alla vigilia le dichiarazioni di ottimismo si erano sprecate, pur senza nascondere la difficoltà dell'eventuale impresa. La prima a lanciarsi sul ghiaccio è Arianna Fontana, la cucciola del gruppo visto che festeggerà il suo sedicesimo compleanno il prossimo 14 aprile: si piazza dietro il treno delle rivali e aspetta. Tiene d'occhio, controlla. I cambi si succedono frenetici, uno dietro l'altro: là davanti qualcosa capita, lì dietro poco o nulla. Non c'è spazio per passare, per infilarsi, per osare. Pian piano, le nostre patiscono il ritmo, si staccano, perdono il treno. Quando passa metà gara, ci pensa però Marta Capurso a ricucire lo strappo: 26 anni, torinese, gioca in casa e sogna una serata così da mesi. Lei — diplomata ragioniera, mai iscritta all'Università ma chissà mai che in futuro non ci scappi una laurea, l'idea comunque di rimanere nell'ambiente una volta terminata l'attività agonistica — sul ghiaccio della sua città, a trascinare le compagne verso l'impresa. L'Italia torna sotto, allora, ma le difficoltà restano tali. Grandi, forse insormontabili. Come fai a sorpassare se non c'è mai un rettilineo che sia uno? Serve qualcosa, serve non sbagliare nulla nei cambi, serve sperare nell'errore altrui. Che arriva, puntuale. Tocca alla Cina cincischiare: un cambio, un' atleta che resta nel mezzo quando invece dovrebbe subito farsi da parte. Vince la Corea del Sud allora, secondo il Canada e terza (forse) la Cina. I giudici si guardano, si interrogano e decidono: cinesi squalificate, italiane sul podio. Il Palavela esplode, ci mancherebbe altro: lacrime ovunque, baci e abbracci, tricolori che sventolano e delirio collettivo. Questo e altro, per la centesima medaglia azzurra nella storia delle Olimpiadi.

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