DI STEFANO ANCORA GRAVE

Per sintetizzare la grandezza dell'ex giocatore del Real Madrid basta considerare che quando ci si imbatte in una discussione su chi sia stato il più forte di sempre tra Pelè e Maradona, spunta puntualmente la voce di chi lo inserisce come «terzo incomodo». I pro: segnava valanghe di reti, ma era altrettanto straordinario nei suggerimenti per i compagni e nella fase difensiva; possedeva doti atletiche eccezionali per la sua epoca; aveva una intelligenza calcistica fuori del comune; ha fatto parte di una squadra leggendaria, il Real a cavallo degli Anni 50-60; in campo era di una correttezza esemplare. I contro: non ha mai partecipato a un Mondiale, pur avendo giocato per tre nazionali (Argentina, Colombia, Spagna); la televisione non era ancora così presente nella vita dalla gente da rendere immortali tutte le sue prodezze. Il totale fa che siamo di fronte a un monumento del pallone, questo è sicuro. Di cosa fosse capace Alfredito, nato il 4 luglio 1926 nella dissestata periferia di Buenos Aires, se ne accorsero per primi i dirigenti del River Plate. Chiuso dai «mammasantissima» Moreno, Labruna e Pedernera, Di Stefano, che dal padre aveva ereditato le qualità pedatorie e dal nonno le origini italiane, viene mandato in prestito all'Huracan. Partito come ala destra, torna come assoluto padrone della maglia numero nove. L'attacco del River, famoso come «la macchina», mette paura e trascina la nazionale argentina alla conquista della Coppa America 1947. La crisi economica, però, travolge anche il calcio e tutti gli assi emigrano. Lo fa anche Di Stefano, ormai per tutti la saeta rubia, la freccia bionda.