Nella capitale va di moda il tiro al piccione
una mania, un'ossessione, più probabilmente la precisa volontà di ignorare tanti altri possibili bersagli meno comodi ai quali rivolgere la propria rabbia, la propria insoddisfazione per l'ennesimo dissolvimento dei sogni e della speranze. A Belgrado la Roma è stata a tratti perfino bella, sicuramente non fortunata, ma quando si tratta di interpretare il risultato negativo non si pensa ai reiterati errori di una difesa che stenta a ritrovare la solidità espressa in avvio di stagione. Più facile rivolgere tutte le attenzioni negative su un solo personaggio. Tanto ingenuo da avere voluto interpretare alla sua maniera, puro istinto, l'esecuzione di un calcio di rigore che non avrebbe modificato l'esito di una partita, se non nella irrilevante dimensione della differenza-reti. Quando il tentato cucchiaio si è rilevato un plateale flop, la vocazione al linciaggio è diventata irresistibile, per quei tifosi che ormai vedono nel barese l'origine delle sventure romaniste. Dimenticando, in un solo istante, il gol allo Strasburgo, l'assist per Tommasi e quello per Nonda, un primo tempo di Belgrado giocato ad alti livelli, le possibili giustificazioni per un calo dovuto a forzata desuetudine all'agonismo, dopo lunga pausa. Antonio Cassano non è mai stato un rigorista, nessuno può dimenticare un goffo scivolone a un passo dal dischetto, ma non credo abbia la pretesa di trasformarsi in gelido esecutore dagli undici metri. In una situazione viziata da veleni di ogni tipo, con la tendenza a scaricare sul giocatore tutte le colpe, in una vicenda mal gestita soprattutto dalla società, forse sarebbe stato più saggio chiamare al tiro un giocatore emotivamente meno coinvolto. Non far pesare sulle spalle di Cassano, insomma una ulteriore responsabilità, essendo facilmente intuibile che un errore, dello stesso tipo di quello giustamente e largamente perdonato a Totti sull'uno a uno di Roma-Lecce, avrebbe suscitato uno sgradevole, rinnovato astio. Che, a titolo personale, mi sembra indegno.