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di STEFANO MANNUCCI NESSUNA moviola potrà svelare il mistero.

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Se quelli che dribblava con tracotanza fossero terzinacci incarogniti o donne fatali. Se quel suo tiro, di volta in volta inesorabile, beffardo, oltraggioso, servisse a far vincere i Diavoli Rossi o a intrappolare nella rete dell'inferno tutti quanti, lui compreso. Probabilmente è vera ogni cosa, e il suo opposto: e Best non ha mai smesso di giocare la sua partita globale, poco importava quel triplice fischio, e poco importa anche adesso. Il Padreterno lo starà ammonendo, e lui tra un attimo si girerà bofonchiando qualcosa di irrispettoso, da squalifica eterna. Pelè diceva di lui: «è il più grande giocatore del mondo». George rispondeva: «se io fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelè». Ecco, i piedi erano il suo tesoro, quella faccia da schiaffi la sua rovina. Quando esordì con il Manchester - aveva 17 anni, all'Old Trafford arrivava il West Bromwich - mandò ai pazzi il suo navigato cane da guardia, Graham Williams. I due si ritrovarono anni più tardi, fuori dal campo. «Senti un po' - lo affrontò il vecchio difensore - stai fermo un attimo qui davanti a me. Voglio guardarti negli occhi». «E perché?», si allarmò George. «Perché - si immalinconì Williams - quel giorno tutto quel che riuscii a vedere di te era quel maledetto culo che si allontanava sempre verso la linea di fondo». Era un trauma, George, per chi lo detestava, ma sopratutto per chi lo amava. 1966, Lisbona: ritorno dei quarti di Coppa Campioni tra lo United e il Benfica di Eusebio, che non perdeva in casa da mille anni. Matt Busby - l'allenatore che cinque anni prima aveva visto giocare su un campetto di scuola il ragazzino di Belfast, marchiandolo subito come un genio - ordina ai suoi un inizio di partita cauto, senza avventurismi. Dopo dodici minuti Best ha già segnato due reti leggendarie. Busby lo convoca accanto alla panchina, con il ghigno di uno strozzino al pub: «Tu ovviamente non hai sentito un cazzo di quello che ho detto negli spogliatoi, eh?». Finisce 5 a 1 per il Manchester, ma è solo una battaglia di quella guerra personale in cui i lusitani dichiarano la resa nel '68, nella finale europea di club. George segna il gol del secolo, ai supplementari: poi il Benfica crolla di brutto, ed è 4 a 1. Best è nominato miglior giocatore continentale, ma in pochi si rendono conto che è solo un ragazzo di 22 anni, nell'anno in cui scoppia la rivoluzione occidentale. Si predica l'amore libero, il Nostro viene soprannominato il «quinto Beatle», anche se con quel taglio di capelli e quel grugno starebbe meglio nei Rolling Stones. È comunque un'icona rock, da allora e per sempre. Negli anni Novanta lo ritroviamo omaggiato sulla copertina del primo disco degli Oasis, altri gaglioffi di Manchester. Anche i Wedding Present gli dedicano un intero disco, poi nel 2000 qualcuno racconterà al cinema la sua odissea nella gloria. E c'è un senso, per questa devozione trasversale. Perché, anche se ha spento gli occhi solo adesso, Best è stato una vittima dei favolosi anni Sessanta. Il suo slogan era: «Ho guadagnato un sacco di soldi, la metà li ho spesi in macchine e donne, gli altri li ho sperperati». Sesso alcool e football, la tentazione irresistibile di giocarsi la vita da solista, mentre la morale comune faceva squadra, organizzava tattiche, strategie contro di lui. Una volta un cameriere entrò nel momento sbagliato in una sordida stanza d'albergo e vide sul letto, in ordine sparso: George, la Miss Universo dell'epoca, ventimila sterline e altra roba sospetta. Lo raccontò ai giornali, il calciatore alzò le spalle: «Forse lui ha visto qualcosa che non sapevo fosse lì». Metteva in fila le ragazze come in una barriera avversaria, poi le bruciava con una qualche punizione. Una notte fece l'amore con sette di loro. Altre ne sposò: la prima fu Angie McDonald James, un'assistente della popstar Cher, ed ex coniglietta di Playboy. Fu un tipico matrimonio di Las Vegas: la coppia arrivò in ritardo nella Cappella dell'

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