Serve l'orgoglio organizzato per sgambettare il grande ex
Perché Lazio-Inter è la saga degli ex, Mancini e il suo vice Orsi in panca, Mihajlovic e Favalli, Stankovic e lo squalificato Veron in tribuna. Ma è anche Peruzzi, che a Milano non è stato amato come nella Capitale, dove ha riassaporato il gusto della maglia Azzurra e trovato una seconda giovinezza. Ed è anche uno scudetto inaspettatamente perso sul filo di lana, in un maledetto 5 maggio nerazzurro che cominciò con l'affetto del popolo laziale, e si chiuse con le lacrime di Ronaldo. Invece stasera si partirà probabilmente dalle contestazioni di una frangia della curva nord, per il «traditore» Roberto Mancini, e verso il solito Claudio Lotito, ormai un bersaglio fisso più per partito preso che per motivi reali, visti e considerati i suoi meriti nella salvezza del club e nell'attivo emerso dall'ultimo bilancio stagionale. Ma ai tifosi, i 23,77 milioni di euro di utile poco importano. Hanno sognato l'aristocrazia del calcio, dopo aver assaporato le zone nobili della graduatoria grazie al poker iniziale di vittorie casalinghe, e ora che la tendenza è parzialmente mutata, hanno ripreso ad urlare i "vattene!" di rito al presidente. Che non ha colpe per l'unico punto acquisito nelle ultime due giornate, anche se resta lui il capro espiatorio di qualsiasi inadempienza. E dire che un misero punto, negli ultimi 180 minuti, l'ha conquistato anche la corazzata meneghina. Tuttavia a Milano tira ben altra aria, la gente è abituata agli sperperi morattiani, e vive sonni tranquilli, anche se la bacheca è senza scudetti da oltre tre lustri. Perché i "danè" non mancano al petroliere, e allora serve poco per sognare, ai sostenitori nerazzurri basta vincere al calcio mercato. Purtroppo qua tocca fare di necessità virtù. Così, l'assenza prolungata di Fabio Liverani, regista che sovrintende agli equilibri fra i reparti quasi fosse l'Emerson italiano, diventa un problema cui deve trovare rimedio solo Delio Rossi, galantuomo che sta per accumulare la quattrocentesima panchina in carriera. Lui dovrà ridisegnare l'assetto e imbastire un nuovo gioco, mirando ad un'impresa parecchio complicata e da portare avanti con il cuore in gola, lontano dai fantasmi di Reggio Calabria. Certo, i contemporanei ritorni di Peruzzi, Siviglia e Behrami, dovrebbero compensare l'assenza dell'uomo-perno del gioco laziale, le cui mansioni saranno affidate a Firmani, destinato a crescere e a prevalere quanto meno sull'oggetto misterioso Baronio. Poi, fari puntati sul jolly offensivo, quel Simone Inzaghi che non gioca titolare dal 28 novembre dello scorso anno e che vagheggia uno sgambetto all'amato-odiato Roberto Mancini, suo compagno d'attacco alla corte di Eriksson e riferimento indigesto quando diventò il responsabile dell'area tecnica più pagato nella storia biancoceleste, con quel contratto folle da 14 miliardi lordi per un quinquennio, mentre il club arrancava soffocato dai debiti. Tutto cancellato. Tutto comunque indimenticabile all'interno dell'epopea-Cagnotti, dove il «Mancio» fu l'artista più importante nel catturare il secondo scudetto laziale e gli altri trofei. Pareva l'età interminabile dello splendore e invece l'opulenza un po' fasulla svanì, lasciando solo rovine e addii di campioni. Ecco cosa è Lazio-Inter, intreccio di sentimenti e risentimenti, prescindendo dalla contrapposizione in campo fra l'orgoglio organizzato dei poveri e le sontuose individualità degli avversari. Noi osiamo puntare sull'orgoglio ultracentenario della lazialità. Dentro lo stadio Olimpico, ora non più teatro di spettacoli planetari, potrebbe risultare