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Un'esistenza sottratta alla fatalità del tramonto

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Accadeva all'indomani della prima conquista, fino al traguardo finale di Parigi, della maglia gialla. Era appena l'estate del 1999, e gli amici dell'Equipe, trenta mesi dopo la rivelazione del tumore ai testicoli, avevano sottolineato con tre parole solo apparentemente scontate il sublime significato di una impresa costruita giorno dietro giorno su un letto d'ospedale ed attraverso una lacerante terapia. Di quel sogno americano, per rispetto alla storia delle sport, era stato riaperto anche il precedente legato al nome di Greg LeMond, cui, insieme con tre affermazioni nella corsa francese, era riuscito in due occasioni di stupire il mondo della disciplina trasformando la maglia a stelle e strisce in quella iridata. Quella del 1999 era dunque stata la prima estate francese di un atleta nato nell'amore totale di una madre e cresciuto nella volgare brutalità di un padre adottivo. Di un atleta che appena qualche anno prima mai avrebbe immaginato di ricevere i telegrammi presidenziali di Bill Clinton e di George Bush. Ma ne esisteva già un'altra, di estate, quattro anni indietro nel tempo, quando in un successo di tappa Lance Armstrong levò sul traguardo le mani al cielo per la dedica più toccante al compagno di squadra Fabio Casartelli, schiantatosi due giorni prima in una curva del Portet d'Aspet. Con la sua vittoria sul cancro, l'americano di Plano Dallas aveva già scritto la pagina decisiva nell'esistenza di un uomo che aveva ripreso a battere per la seconda volta, dopo quella anagrafica del 1971, e di cui restano, memorabile testimonianza, le parole che aprono il racconto della sua vita: vorrei morire a cento anni, vorrei morire con la bandiera americana alle spalle, la stella del Texas sul casco, con la bicicletta lanciata a cento all'ora su una discesa alpina, ricevendo l'abbraccio di una donna fenomenale, mia moglie, e dei miei figli. Quando Lance Armstrong vinse il quarto Tour de France, gli fecero notare come mai fosse avvenuto in precedenza che un ciclista affermatosi in quattro edizioni della corsa non avesse poi toccato il quinto traguardo di Parigi. Gli fecero i nomi di Jacques Anquetil, di Eddie Merkx, di Bernard Hinault, di Miguel Indurain, due francesi, un belga, un navarro. Era il 2002. Si consumava l'estate, si preparava un altro inverno. Ne sarebbero passati altri tre. Fino all'ultimo traguardo di ieri. Tagliandolo dopo l'ultima tappa da Corbeil Essonnes alla capitale, Lance Armstrong ha dichiarato per l'ennesima volta di aver chiuso con l'attività agonistica. Al massimo, vorrà stupire tecnici e scienziati correndo la maratona in due ore e mezza. Bisogna credergli. Chiude con un patrimonio agonistico unico raccolto sulle strade di Francia, sette vittorie, sfuggendo alle crisi, ammesso ve ne siano state, riempiendosi le tasche, secondo diritto, di franchi e di dollari, muovendosi talvolta in corsa con l'inaccettabile arroganza di un padrone, reagendo alle accuse dei tanti che gli hanno sempre puntato sul petto il dito del doping. Chiude così, non avendo suscitato le passioni mosse da Coppi e da Bartali, gli amori senza riserve per Bobet e Anquetil e Hinault, o lo sbigottimento di cui tutti furono vittime ai tempi di Eddie Merkx. Si continuerà a parlare e scrivere di lui fin quando un altro superuomo aggiungerà una cifra in più al conteggio delle sue affermazioni in maglia gialla. Resterà, per sempre, la storia di un grande atleta, cui un giorno il destino affidò il compito di trasmettere al prossimo come una giovane esistenza, compromessa e segnata, possa essere sottratta alla fatalità del tramonto.

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