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Solo Felice Gimondi riuscì ad evitare l'umiliazione allo strapotere del Cannibale

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Veniva divorando strade, nemici, equilibri, leggi naturali, secondo una geometria agonistica che non lasciava spazio alle eccezioni, costringendo quindi le cronache a rintracciare a fatica verginità di iperboli, come forse non era accaduto in passato nemmeno a Binda, a Coppi, a Bartali. Se vale il principio che non tutto ciò che è legittimo debba essere necessariamente giusto, si potrà allora dire che c'è stato più d'un momento in cui la supremazia di Mercx fu di tali dimensioni da far gridare all'ingiustizia. Quando gli fu dato del cannibale, sia pure nell'accademica oscenità del titolo sembrò che con quell'attributo il cerchio si chiudesse. Cosa altro aggiungere d'altra parte ad uomo che mise fine alla carriera con 445 vittorie da professionista, compresi cinque giri d'Italia ed altrettanti di Francia, compresi tre campionati del mondo, sette Milano-Sanremo, cinque Liegi-Bastogne-Liegi, tre Parigi-Roubaix, un primato dell'ora e diciassette affermazioni nelle Sei Giorni, quelle spericolate avventure su pista dove spesso bizzarria e folclore cedono il passo alle più massacranti esasperazioni fisiologiche. Eddy Mercx non ebbe in salita identiche qualità di Ottavio Bottecchia, di Bartali, di Coppi, di Charlie Gaul, di Bahamontes o di Pantani. Non ebbe l'eleganza di corsa di Girardengo, di Alfredo Binda, di Luison Bobet, o di Hugo Koblet. Restò lontano, in cronometro, da Jacques Anquetil, da Bernard Hinault e da Miguel Indurain. E non sfiorò mai in discesa le voglie suicide di Fiorenzo Magni e di Gastone Nencini. Ma ebbe tutto assieme, per quasi quindici anni, da quando inchiodò per la prima volta le ruote della sua bicicletta sul traguardo di Sanremo fino al marzo del 1978, quando la povertà degli avversari poté finalmente affidarsi ad orizzonti meno penosi. Di tre stagioni più anziano, uno tra i più ammirati esponenti dello sport italiano ebbe la sventura di incrociare il proprio itinerario agonistico con quello del fuoriclasse belga. Questa sorte toccò a Felice Gimondi, che tra il Sessanta ed il Settanta raccolse sulle strade del vecchio continente l'eredità lasciata qualche stagione avanti da Bartali, Coppi, Magni, da Nencini e da Ercole Baldini. Di fronte a Mercx, solo un grande campione sarebbe stato capace di evitare l'umiliazione. Gimondi ci riuscì, vincendo Mondiale, Giri e Tour e molte tra le più nobili delle classiche. Ancora adesso, sul traguardo dei sessanta anni, Mercx ricorda con inalterato rispetto il ciclista di Sedrina. Giorni addietro si sono ritrovati - il belga avendo drasticamente eliminato lo smisurato, inguardabile involucro di grasso da cui era stato avvolto, dopo l'abbandono d'attività, per oltre vent'anni - sulle colline del bergamasco. Amici di vecchia data, certamente. Ma il cannibale avendo serbata inesausta la libidine di triturare ossa e muscoli di chiunque gli si ponesse ad altezza di ruota. Come ad altri campioni dello sport, anche ad Eddy Mercx toccò subire i guasti del doping. In due occasioni. Sempre in Italia, nella tappa di Savona nel Giro del 1969, maglia rosa sulle spalle, e nel Lombardia, quattro anni dopo. Non d'uso di sostanze esiziali si trattò, essendosi riscontrato in entrambi i casi frequentazione con efedrina. Ma per una disciplina che aveva ancora sulla pelle la tragicità delle morti per abuso di anfetamine di Knut Jansen ai Giochi del '60 e di Tommy Simpson al Tour del '67, aggiunte alla notorietà del personaggio coinvolto, si trattò comunque di una ferita dura da sopportare. Acqua passata, a distanza d'anni. E comunque, un graffio irrilevante nella insolente, imperiale carriera dell'uomo nato a Meensel-Kiezegem sessantanni fa.

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