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Diecimila tifosi per una partita che è durata solo sessanta secondi. E il tricolore sfuma

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Ma non qui: le stazioni del calvario si chiamano Ancona, Brescia, Bologna. E la mappa del futuro segna in rosso Londra, dove il Chelsea dei paperoni russi chiama a gran voce Emerson e Samuel, o Madrid, dove già vanno a ruba le magliette taroccate del Totti possibile «galactico». E vai a smentire, prova a rassicurare. La verità è che il popolo romanista è arrivato a San Siro schiumando rabbia e ansia, come una balena che navighi in un mare di ingiustizie. Gli arbitri che fischiano ineffabili sempre ciò che non devono, le tv satellitari che coprono di miliardi la trimurti Juve-Milan-Inter, spargendo rare briciole per tutti gli altri. Così, dopo l'inzuccata di Sheva, il tempo a Milano si ferma: lui resta come sospeso a mezz'aria, in un impossibile fermo-immagine, e i giallorossi capiscono che stavolta è davvero finita, inutile lambiccarsi sulle prossime partite, sulla Reggina, su Baggio. Finita, troppo presto per giunta, come in certi match di boxe «del secolo», che quello va giù al primo montante, e poi vai a chiedere il rimborso del biglietto. E pare quasi uno spreco, questa partita, vista da vicino. Con mezzo mondo collegato, i bagarini a chiederti duecento euro per uno strapuntino, e le odissee dei tifosi negli aeroporti bloccati, o nei treni che impropriamente si definiscono «della speranza», che solo a prenderli fa già tanto Lourdes. Nelle quasi due ore che seguono il volo assassino del bomber ucraino, in campo non c'è già più suspence, ma alla prima occasione utile esplode un rancore sordo, millenario, inconfessabile e bestiale. È lì, quando Totti perde la pazienza per la mano di Shevchenko in barriera, è in quel momento, quando Messina decide che non è il caso e insomma si prosegua, che la meravigliosa, impagabile tifoseria giallorossa si trasforma in una sorta di «nido di vespe» da guerriglia mediorientale. Con petardi che esplodono con un fragore spaventoso in questi tempi di kamikaze, e il povero Dida costretto a proteggersi dai razzi che gli piovono addosso, come in un incongruo, crudele videogame. Anche Gattuso, l'immarcescibile misirizzi milanista, soccombe a uno scoppio lì nei pressi. E viene in mente l'ultima vittoria della Roma quassù: anche allora fu una bomba-carta, ma dalla curva opposta: centrò Tancredi, tre punti amari, e comunque da 18 anni non si vince, in un modo o nell'altro. Così, quando alle 16, 47, con dieci minuti di anticipo sul fischio finale, i romanisti sentono portato dal vento quell'"i campioni dell'Italia siamo noi" che nel 2001 inondò per mesi la festa capitolina, capiscono che anche stavolta lo scudetto resta qui. «I campioni dell'Italia siamo noi», cantano i commandos milanisti, e ci vuole l'indolente arguzia di un tifoso intellettuale per rimandare la battuta giusta: «Ve dovete decide», urla dalla tribuna mentre esplode la festa del diavolo: «O fate i separatisti, e allora giocate il campionato del Carroccio, o comportatevi da connazionali». «Giusto», ribatte un suo sodale: «Giocassero in tre, Juve, Milan e Inter. Con i soldi di Sky e la benedizione della Lega». «Quale Lega? - insiste l'altro - quella di Bossi o quella di Galliani?» «È lo stesso», chiude laconicamente l'amico. Ma sono consolazioni dialettiche, eleganti, mentre qui a San Siro si compiva la tragedia antica del dualismo tra le metropoli, Latini contro Longobardi, «Roma Ladrona» per gli uni e «Ladri» tout court per gli altri, e due poteri a confronto, sotto l'ombra del Cavaliere. Con gli striscioni che neppure insistevano troppo sull'oltraggio: i giallorossi sfoggiavano giusto un «Padano ingrato onora chi ti ha civilizzato», e i rossoneri replicavano con «Parlate di picciotti e di omertà ma siete solo dei quaquaraquà». Da un lato leggevi: «Il sogno di un maiale,

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