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di GIANFRANCO GIUBILO CON quale maglia l'avrebbe giocata, una partita di addio che tutti ...

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Sempre onorando Roberto Baggio il «codino», le casacche indossate nei quasi venti anni di Serie A: il viola, forse il più amato, poi il bianconero della Juve, il rossonero del Milan, il nerazzutto dell'Inter dopo la breve parentesi con il rossoblù del Bologna, l'azzurro e il bianco del Brescia, l'attualità forse l'ultima se i propositi di ritiro saranno tradotti in realtà. Sempre con grandissima professionalità, di tale livello da superare senza traumi le incomprensioni con qualche allenatore renitente al genio, talvolta con un tifo rancoroso per troppo amore. Non è un caso, che il feeling più intenso sia stato quello stabilito con un altro personaggio non soltanto di straordinaria integrità morale, ma come lui restio verso quell'ipocrisia che sembra un legame indissolubile tra i calciatori e l'informazione. Come Carlo Mazzone, Roberto non ha mai accettato la maschera offerta dalla banalità, proprio come quel suo mentore, lontano per origini geografiche e per sottofondi culturali e così vicino negli atteggiamenti e nella sincerità di accenti. Tra il trasteverino e l'asceta dello zen, una singolare comunità di idee e di intenti, tanto da lasciar capire che un eventuale ripensamento potrebbe essere legato esclusivamente a un ultimo appuntamento con il Sor Carletto: che ha saputo restituirlo a nuova vita agonistica e accompagnarlo per mano sul campo e fuori, un padre prima che un maestro. Ma, logicamente, la maglia verso la quale qualsiasi calciatore di alto livello rivolge lo sguardo della nostalgia e dell'affetto, è quella azzurra, di una Nazionale raggiunta a ventuno anni, in un'amichevole con l'Olanda, e salutata questa sera, in un'altra partita dai significati modesti, senza punti in palio, senza altro premio se non l'abbraccio corale non soltanto della folla del Ferraris, ma dell'Italia intera. Italia che ha imparato ad amarne nel tempo, e al di là di un immenso talento calcistico, anche quegli spigoli e quella ritrosia troppo tardi apprezzati secondo il loro valore, serietà e rifiuto di un buonismo costruito. Avrebbe voluto, Baggio, un'altra occasione, di diverso spessore, come il Mondiale d'Asia, incoraggiato da un populismo sospetto. Nessuno voleva tener conto, anche chi conosceva benissimo la realtà, come per un tecnico gratificato dalla presenza di una schiera di attaccanti da far invidia al mondo intero fosse scomodo, se non impossibile, portare in Giappone un Roberto Baggio, scatenando polemiche feroci, e forse qualche malumore di spogliatoio, sia in caso di impiego sia di occasionale panchina. Stasera, senza volti fantasiosi per introdurre una inutile manfrina in vista di un Europeo alle porte, Roberto avrà la sua passerella trionfale, ascolterà soprattutto un corale appello a tornare indietro sui propositi espressi, a regalarci ancora momenti di magia, con l'augurio che i ricorrenti tormenti fisici gli accordino onorevole tregua. Passeranno, nella mente degli appassionati, immagini difficili da cancellare. Dolcissime, come l'invenzione di Italia '90 contro i cechi, come la doppietta alla Nigeria per resuscitare una Nazionale già sepolta. Ma ugualmente dolce, nella sua umanità, l'immagine di quel rigore calciato alto, nella finale di Pasadena, da un atleta stravolto e stremato, che già aveva fatto miracoli a scendere in campo di fronte al Brasile. Perché anche di questo, e non soltanto di momenti di gloria, vive il romanticismo del calcio.

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