di PAOLO DANI UN'ESTATE FA.
Dopo il 2-0 alla Finlandia e le ritrovate speranze di primo posto nel girone per Euro 2004, il commissario tecnico dell'Italia si prepara a vacanze più allegre di quelle 2002, quando l'eliminazione dal Mondiale rischiò di prolungare le sue ferie oltre misura (causa licenziamento). Rivincite da prendersi non ce ne sono, assicura, ma Trap si gode l'immagine di una nazionale vincente e spettacolare, distante da quella perdente del dopo Mondiale: «Preferisco guardarvi dall'alto», ha replicato il ct a quanti sull'aereo di ritorno da Helsinki lo invitavano a sedersi per l'ultima conferenza dell'anno: semplice battuta o allusione, di fatto il ct ha analizzato l'inversione di rotta rimanendo ben diritto, in piedi. Come la sua Italia degli ultimi tempi. «Umiltà, cosapevolezza della propria forza, condizione, alternative ai titolari, e giocatori dai piedi buoni: la formula di questa nazionale è tutta qui», ha spiegato Trapattoni. Con una semplicità disarmante come l'ostinata fedeltà al suo credo calcistico: sono i calciatori a determinare i destini delle squadre, non gli allenatori. Discorso valido quando c'era da subire bordate personali, e confermato ora che Totti e Del Piero danno lustro all'azzurro. Ma non solo loro. «Zambrotta si è tolto di dosso il perbenismo tipico dei bravi ragazzi e ora osa - si gongolava Trapattoni - con lui abbiamo rinnovato la grande tradizione del calcio italiano con i terzini sinistri. Da Facchetti a Cabrini, tutti venivano da ruoli offensivi. Però non accetto che si dica che ho messo in campo un'Italia più spregiudicata: ho addosso la patente del difensivista, ma giocavo con terzini che segnavano già negli anni '70. Quando molti dei miei critici ancora non si occupavano di calcio». Per non aver rivincite da prendersi, niente male. Trapattoni però assicura di non aver mai pensato di andarsene e di «esser rimasto sereno, anche dopo il Mondiale: so che in questo lavoro un giorno ti buttano nel fosso, un altro ti ripescano». Di fatto, per comprendere quanto sia diversa questa Italia il paragone va fatto con il 2002, non con il Trap vincente dell'era Platini. Oggi, rispetto a un anno fa, c'è la condizione fisica di Totti e Del Piero; ci sono volti nuovi come Perrotta a centrocampo, Zambrotta (almeno nel ruolo di esterno difensivo), Corradi quale vice-Vieri, Camoranesi all'ala. E c'è soprattutto l'assetto della squadra, cambiato al di là degli schemi. «Noi più offensivi? Se andate a vedere, giocavamo così anche in Corea - si para Trapattoni - Doni a sinistra era la stessa cosa, veniva da una stagione con 19 gol». Ma se è vero, come dice il ct, che l'Italia delle cinque vittorie su cinque nel 2003 «equivale a quella della qualificazione al Mondiale», ovvero a una formazione che giocava con il 3-4-1-2, simile non è il modulo ma lo spirito vincente. «Non contano gli schemi, ma gli assetti e l'equilibrio che i giocatori sono in grado di dare»: tradotto, ora Zambrotta terzino e Camoranesi ala consentono il passaggio alla difesa a quattro e alle due ali, e la disponibilità al sacrificio di Del Piero fornisce - con Delvecchio - almeno due alternative sulla fascia sinistra. C'è poi il discorso delle gerarchie. «L'arrivo dei nuovi può aver smosso in qualche modo chi aveva il posto: magari qualcuno è tornato dopo un'assenza, ha visto che c'era un altro e si è chiesto cosa fosse successo. Ma il calcio italiano non si ferma mai e il rischio infortuni è alto, a queste alternative non posso rinunciare...». Risultato: per Inzaghi sarà difficile trovare spazio di nuovo in azzurro, per lo meno fino a quando chiederà garanzie di un posto in squadra. Squadra che vince, insomma, non si cambia. Sperando di trovare a settembre «la stessa condizione di oggi».