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di FABRIZIO FABBRI MA siamo sicuri che sia veramente la fine? Sembrerebbe proprio così, ...

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Non ci sarà ancora un ritorno, perchè le sue fragili ginocchia scricchiolano sempre di più e, soprattutto, perchè la sua dignità glielo impone. Perdere non fa parte del suo dna e queste due stagioni di calvario a Washington, franchigia di cui è anche coproprietario, sono state una lunga sofferenza. Dolorose più dell'ennesima operazione alla cartilagine di un ginocchio che già un anno fa sembrava averlo portato al saluto definitivo. Ma lui, il signor 23, non poteva lasciare senza l'applauso della gente. E così, nella notte tra mercoledì e giovedì alla First Union Arena di Philadelphia è andato in scena il suo passo d'addio. Chiuso con Washington, ormai fuori dai playoff, travolta dai Sixers di Allen Iverson. Ma gli applausi sono stati solo per lui. Collins, il coach dei Wizards, l'aveva richiamato già in panchina, ma la gente di Philadelphia ha intonato un ritmato «we want Mike» che ha costretto lo stanco campione ad un nuovo ingresso in campo. Salutato da un'ovazione che l'ha accompagnato fino alla realizzazione dei suoi ultimi due punti (dei 32.292 messi a segno, che lo fanno terzo marcatore di tutti i tempi alle spale di Jabbar e Malone) della carriera. Poi il cambio e l'applauso sempre più fragoroso. E la commozione. Si, anche sul volto di Michael Jordan. Il più forte giocatore della storia della Nba. Che ora ha detto basta. Per sempre.

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