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Razzismo da stadio tra ignoranza e radici politiche

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Va di moda lo studio del labiale, che però pare non abbia chiarito nulla, ma credo che qualunque sia la frase pronunciata dal cannoniere dell'Inter non si possa ricondurla, anche nell'ipotesi peggiore, ad un episodio di razzismo. Per estensione, pur giudicando la tendenza come l'espressione di una diffusa ignoranza e di una vergognosa maleducazione, credo che la stessa considerazione valga per quei coretti di buu-buu che si sentono talvolta nei nostri stadi quando un giocatore di pelle scura della squadra avversaria tocca la palla. Succede spesso all'Olimpico, quando gioca la Lazio, succede purtroppo anche a Verona, la mia città. Penso che questi episodi si possano catalogare accanto ad altri cori che hanno la stessa matrice dell'ignoranza e della mancanza di fantasia e che appartengono al mondo dei tifosi, soprattutto quando si aggregano. Più che vergognoso, è banale e stupido quel "devi morire" indirizzato al giocatore nemico che è finito a terra e non è certamente migliore o meno volgare il "vaffa" indirizzato alla squadra. L'intenzione del tifoso e qualche volta anche del giocatore è quella di indirizzare l'insulto più comodo, più spontaneo, più imbecille all'antagonista. Non è forse sfuggita anche ad un guardalinee tra i più noti un'espressione immediatamente catalogata come razzista? Il razzismo, che peraltro esiste - anche se fortunatamente in forma meno diffusa di quanto si pensi - è un'altra cosa. Il razzismo è quello che negli Stati Uniti (dove il problema è ben lontano dall'essere superato) ha portato nel lontano 1938 gli americani a bianchi a tifare per il tedesco Max Schmeling che si batteva contro il nero americano Joe Louis malgrado le note affermazioni di Hitler sulla superiorità della razza ariana. Qualche anno fa il più noto commentatore sportivo americano, Howard Cosell, recentemente scomparso, durante la telecronaca di un incontro di football disse, per sottolineare la prodezza atletica di un giocatore, "guardate che cosa è stato capace di fare quella scimmia !" Purtroppo si trattava di un giocatore nero ed il giorno dopo Cosell è stato oggetto di insulti, di interpellanze parlamentari, di attacchi personali. Certo che aveva sbagliato ma se avesse usato la stessa espressione per un giocatore bianco non sarebbe successo nulla. Qualche anno prima Jimmy "The Greek" Snyder, una delle maggiori personalità del mondo sportivo americano (stabiliva le quote per le scommesse, teneva rubriche su giornali e TV) fu interrogato sulle ragioni che determinavano la superiorità atletica di molti neri. Rispose che forse la ragione veniva dall'epoca degli schiavi, quando il "padrone" faceva accoppiare - come si usa per i cavalli - i suoi schiavi per migliorarne la qualità ed il rendimento. La ABC per la quale Snyder lavorava, fu costretta a licenziarlo in tronco. Torniamo nei nostri stadi. Il razzismo da stadio non è vero razzismo, il che non toglie che sia giusto combatterlo perché è figlio dell'ignoranza, la stessa che induce i tifosi in trasferta a devastare treni ed autogrill ed a considerare il poliziotto un nemico da insultare e possibilmente da picchiare. E' anche vero che qualche volta e soprattutto in qualche curva, il razzismo da stadio ha radici politiche che - quelle si - sono pericolose e che si manifestano in diversi colori, all'Olimpico ma anche a Livorno, a Verona, a Brescia. Ai confini di queste situazioni si colloca anche un discorso sul fair play, titolo di una mia fortunata serie televisiva su Tele+ ed ora di questa rubrica. Quando mi è stato chiesto perché avessi scelto un'espressione inglese dissi che purtroppo il fair play non apparteneva alla nostra cultura. Il discorso è diventato d'attualità in questi giorni perché sulle radio romane è stata giustamente criticata la sceneggiata di Keown, il giocatore dell'Arsenal, appena sfiorato da una manata di Francesco Totti. Keown ha fatto quello che sui nostri campi il 60 per cen

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