
Zucchero trasforma il Circo Massimo in un'arena blues: "Invito Bono, Sting e Jovanotti"

Antidivo fino all’osso e immune alle mutazioni genetiche che i tempi vorticosi impongono, Zucchero approda a Roma, con cui ha fissato il doppio appuntamento del 23 e del 24 giugno al Circo Massimo, indossando occhiali da sole e borsalino e sfoggiando un sorriso largo, rassicurante. Fuori è primavera e il sole, caldo, batte sulle strade del quartiere Parioli. Nessuna intenzione di fare l’adulto nella stanza traspare. Anche se potrebbe. Ad animarlo nel botta e risposta con i giornalisti, piuttosto, è il piacere di tastare il polso della Capitale e di fornire risposte soddisfacenti, piene. «Era un po’ che speravo di venire al Circo Massimo, un posto iconico, affascinante. Non vedo l'ora, mi piace l'idea di suonare qui, che avvenga d’estate, che sia all’aperto. C’è una magia particolare», confessa con voce chiara il cantautore. Un entusiasmo bambino trapela e l’energia dell’attesa, che affonda le radici nella campagna emiliana in cui è cresciuto e in cui a dare il ritmo, oltre alla musica, era l’alternanza della semina e della raccolta, è palpabile.

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Promette concerti (quelli a cui potranno assistere ben 13mila persone a serata e per cui sono stati staccati già 15mila biglietti) in cui la vera protagonista sarà la musica. Missione ancora possibile, questa, grazie a una squadra ormai collaudata di musicisti capaci di navigare a vista, di seguire il flusso, di entrare in armonia con l’atmosfera. Sul palco, che tra pochi mesi farà rivivere la valle tra il Palatino e l’Aventino, salirà con Zucchero «una band che non ha bisogno di provare, che conosce tutte le canzoni e che sa fare le cose alla vecchia, in modo estemporaneo», racconta. L’improvvisazione, assicura il bluesman, sarà la spina dorsale di ogni esibizione. Zucchero ne è maestro e lo deve a una lunga gavetta. «Ho cominciato giovanissimo, a quindici anni suonavo già il sax in un gruppo che faceva Rhythm and blues. Un giorno si è ammalato il cantante, dovevamo salvare la serata. Io non avevo mai cantato, ma mi sono buttato: alla fine hanno tenuto me e licenziato lui», dice sogghignando e suscitando l’ilarità dei presenti.

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Non manca un velo di nostalgia per l’epoca in cui «ci si riuniva nei club, si ascoltavano i vinili». Oggi i giovani talenti, fa notare il cantautore, «non credono che improvvisare sia nel loro Dna. Pensano che non faccia parte del mestiere. Vogliono apparire, scrivere una canzone che sia attuale, che possa piacere ai ragazzi. Io, quando li incontro, ci gioco: "Per voi il tempo è solo un fatto meteorologico"», scherza. Il ricordo di un concerto a Roma? L’aneddoto, che riemerge dal 1989, è tutto da ridere: «Dovevo suonare al Flaminio. Avevo invitato il sassofonista di Bruce Springsteen Clarence Clemons, per dire. Il disco era andato bene, sembrava tutto perfetto. Poi, non so perché, mi hanno mandato al Mattatoio». Tra i possibili amici e colleghi che Zucchero vorrebbe con lui per la tappa romana del tour «Overdose D’Amore» ci sono nomi di peso. «Sparo alto? Bono, Sting, un Jovanotti che saltella. Glielo chiederò, ma dipende dalle combinazioni».

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Il rock «è molto annacquato, manca l’impegno anche nel rap», evidenzia il cantautore, che però poi esprime un parere positivo sul modo di fare musica di Salmo e di Marracash. Bob Geldof «ha chiesto conferma del mio numero e della mail. So che sta pensando a qualcosa, forse un nuovo Live Aid. Speriamo che ci sia ancora qualcuno che difende qualche ideologia», rivela nel corso dell’incontro in merito a un ipotetico, nuovo evento benefico. Ai concerti capitolini non verrà certo proibito di ancheggiare, ma Zucchero conosce il suo pubblico «sofisticato» e ha predisposto che ci siano posti a sedere per tutti: «Sono una comfort zone, si evitano ressa e casino. Un po’ come a teatro. Poi, però, appena parte il baraccone, il pubblico si alza in piedi e fa come vuole».
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