Daniele Mencarelli: "L'autoironia è l'arma dei poeti". L'intervista
Aveva ragione Federico Fellini quando, per rappresentare «la buona fede del testimone», che registra «la vita così com'è» e «prende nutrimento anche dall'aspetto mostruoso» dell'esistenza, mise in bocca al suo Orlando una frase destinata a descriverne la dolcezza. «Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?», chiede il cronista di «E la nave va», rimasto sulla scialuppa col pachiderma. Se ne bevi un po', la barchetta inizia a galleggiare. L'immagine occupa la mente mentre Daniele Mencarelli ripete due parole quasi masticandole: «Anni autodistruttivi». Capace di incursioni a luce radente e lontano dal cerchiobottismo, il poeta romano ha raccontato in «Tutto chiede salvezza» l'esperienza del trattamento sanitario obbligatorio a cui nel 1994 è stato sottoposto a causa di una violenta esplosione di rabbia e di un rapporto confidenziale con le dipendenze. Da lì il premio Strega Giovani nel 2020 e la serie Netflix con la regia di Francesco Bruni. Una penna intrepida e una scrittura incandescente hanno fatto deflagrare, attraverso l'ironia, schemi e perimetri, portando in superficie personaggi teneri e selvaggi, che abitano ai margini del mondo e in ognuno di noi. Ora, in occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo «Brucia l'origine» (edito da Mondadori), l'autore ha accettato la proposta di una chiacchierata, «che è la cosa più bella che un essere umano possa fare».
Se pensa che ha fatto delle parole il suo lavoro, che emozione prova?
«Torno ai miei 14 anni. Sarei ipocrita se dicessi, come tutti quelli che aspirano a un'affermazione, che non abbia mai sognato di arrivare a vivere del talento che gli altri mi riconoscevano. C'è una parte di me, determinata e instancabile, che non si è mai fermata. Mi emoziona capire che, così come per me ci sono state letture cromosomiche, i miei romanzi possano esserlo per tanti ragazzi».
Perché piace ai giovani?
«Quando ho iniziato a scrivere romanzi, sono partito da un assunto: servono adulti in grado di avere parole, di non ridurre tutto a un dato da risolvere. Non c'è uomo che non abbia desiderio di crescere in possibilità espressiva rispetto all'esistenza. Stimo le nuove generazioni. La fragilità fa soffrire, ma ci permette di rinascere».
Da ragazzi si ha la sensazione di non avere risposte. Qual è il consiglio?
«Più che ai ragazzi, lo do agli adulti. Se partiamo dall'idea di uomo infrangibile, che non prende atto dei limiti, esplodiamo. La letteratura dà voce alle domande e non fornisce risposta. Alla cultura spetta narrare l'uomo per quello che è».
C'è stato un momento in cui ha sentito che la letteratura iniziava ad attraversarla?
«Sì, quando ho ricevuto le prime risposte da quelli che considero i miei maestri. Hanno riconosciuto la mia voce e quindi ho sentito la responsabilità di lavorare e di affinarla. Se qualcuno ti dice che hai un talento e lo devi esprimere, ti ritrovi un grande diritto-dovere e non puoi che metterti a disposizione».
Sembra che la fragilità appartenga solo al nostro tempo.
«Esattamente, è sempre esistita. I poeti ci insegnano che non abbiamo inventato nulla. Ci stupiamo delle domande archetipiche che l'uomo si è sempre posto in merito alla morte, al destino, al tempo, a Dio. La cosa più drammatica, per un ragazzo, è pensare che quel dolore sia una maledizione che cade solo su di lui. Quest'epoca ha cristallizzato tanti interrogativi con la presunzione di averli risolti per sempre».
Si pecca di arroganza?
«Chi non si interroga, il vuoto lo riempie con i consumi, l'individualismo e la carriera. Abbiamo una società disintegrata, che non cerca più nella pluralità qualcosa che sia più importante dell'io».
«Ultima preghiera» di Giorgio Caproni è un tentativo di aggrapparsi a un momento passato. Lei quale sceglierebbe?
«Beppe Salvia offre una definizione di malattia mentale: “Io ho nostalgia delle cose impossibili”. L'uomo non può realizzare l'irrealizzabile. Se proprio dovessi selezionare un momento, sceglierei i festeggiamenti dello scudetto della Roma del 1982-1983. Certi flash sono a tutti gli effetti il mio paradiso psicologico, il mio Eldorado, il luogo dove ancora vado a rifugiarmi».
La figura materna torna spesso nella sua scrittura.
«Il poeta, per illuminazioni, non fa altro che ristabilire la grandezza dell'esistenza. C'è un fatto inoppugnabile e da brividi: non esiste uomo sulla Terra che non sia uscito da un utero. Questo stabilisce la centralità cosmica della madre».
Ha reso comprensibile il tema della salute mentale usando l'arma dell'ironia.
«Credo che l'ironia e l'autoironia siano degli strumenti straordinari per sopravvivere a se stessi e per trovare nell'altro quel dono fondamentale che è la risata comune. A Roma e ai romani è stata riconosciuta la dote del trasformare la tragedia in tragicommedia. L'ironia è il passepartout per giocare assieme».
In «Brucia l'origine», la vita di Gabriele inizia a galoppare e quella velocità lo porta lontano dagli affetti. Le è capitato?
«Sì. Siamo un Paese di migrazioni interne. Gabriele attraversa mondi in chiave ascensionale e in parte mi rispecchia. Vengo da una famiglia di lavoratori. Crescere, in termini di cultura e di benessere economico, ti distanzia dall'universo di origine, che rimane cristallizzato».
Che rapporto ha con il senso di colpa?
«Il tema bruciante, per Gabriele, è la sottrazione a una soluzione. Io ho vissuto per lungo tempo, rispetto ai miei anni giovanili autodistruttivi, coltivando sensi di colpa. Oggi li affronto e cerco di risolverli».
Crede che la bellezza di Roma sia scindibile dalla trascuratezza che l'attraversa?
«È una città meravigliosa, ma che ha depresso un popolo che considerava un dono la romanità. I romani sono afflitti, avviliti. Una città deve anche offrire una vivibilità. Da Roma si fugge: rischia di essere un “a parte” rispetto a quasi tutte le capitali europee».