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Motta giù dal palco: "Togliersi la maschera è un atto necessario". L'intervista

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Valentina Bertoli
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Chi ha stabilito che la distanza ideale per sentirsi in posizione focale rispetto alla performance di un artista debba essere imposta dalla struttura di un palco e dai limiti di una sopraelevazione? Per uno come Motta, che abbatte le barriere e in musica attraversa la profondità e l’asprezza del suono e della voce, questo è stato un interrogativo fertile. Niente assi e travi a sorreggerlo, nessun trucco da mimetizzare. Stasera e domani, all’Hacienda, il cantautore giocherà a carte scoperte. Scelta, questa, arrivata insieme al nuovo album «Suona! Vol. 1» (che contiene brani editi ma dei quali sono stati modificati arrangiamenti e armonie) e alla fondazione dell’etichetta discografica indipendente «Sona Music Records».

Due concerti a Roma, la città che l’ha adottato, che effetto le fanno?

«Succede sempre qualcosa di bello a Roma. Emozione doppia, poi, perché suoneremo senza palco. Abbiamo scelto di metterci in una situazione di difficoltà».

Perché ha deciso di strutturare il live così?

«Questo progetto nasce come un esperimento discografico parallelo. Io sono affezionato alle versioni originali delle mie canzoni e non volevo un suono moderno. Piuttosto ci tenevo a mettermi in gioco come musicista. I testi rimangono quelli: attraverso la musica siamo riusciti a offrire un’altra lettura degli stessi. Non poteva essere un live come un altro. Siamo in un momento storico in cui bisogna fare in modo che chi suona si tolga completamente la maschera: quindi essere al centro e dare la possibilità di vedere meglio quello che facciamo. Gli errori possono rendere tutto più unico e io volevo trasformarli in qualcosa di bello».

C’è il desiderio di ristabilire un contatto più diretto con il pubblico?

«Volevo ricreare una sinergia diversa e che ci vedessero per quello che siamo».

È un atto rivoluzionario?

«Più che un atto rivoluzionario, è un atto necessario. Essere sinceri è la strada più difficile».

In «Roma stasera» lei parla di «sogni bruciati». Ha più un rapporto di amore o di odio con questa città?

«In questi dieci anni qualcosa è cambiato. Ci sono delle cose che un tempo sopportavo e ora un po’ meno. Soprattutto dal punto di vista logistico: a volte passare da un quartiere all’altro richiede lo stesso tempo che occorrerebbe per passare da una città a un’altra. In quanto romano adottato, mi sento in dovere di amare profondamente questa città ma anche di odiarla».

Perché la ama?

«È di una bellezza sconvolgente. Il mio studio è a Trastevere. Per arrivarci e per ricordarmi della responsabilità che sento nei confronti di questa città, percorro volontariamente Vicolo del Buco, dove c’è la casa di Lucio Dalla».

Ha fondato un’etichetta. Qual è la spinta alla base di questa iniziativa?

«Il disco “Suona! Vol. 1” è stato l’occasione per fare questa follia. Non è detto che rimarrà legata ai miei album, ma sarà il pretesto per lavorare di più con gli altri».

In «Suona» c’è una vorticosa sovrapposizione di inviti a fare musica. Quando ha riconosciuto la sua?

«Un passaggio fondamentale è stato l’incontro con Riccardo Senigallia. È successo in un momento di vertiginosa solitudine. Avevo smesso di suonare con la mia storica band. In quella paura, potevo solo raccontare come stavo. È venuto fuori un disco molto fortunato. Nei momenti di solitudine si tira fuori verità ed è stata ripagata. Non era scontato».

Le sue canzoni hanno spesso un effetto straniante. Come fa a raggiungere quella tensione?

«La tensione musicale e testuale è fondamentale. Soprattutto ora, che la curiosità e la pazienza vengono meno perché siamo bombardati di informazioni, ne sento la necessità. La richiedo da ascoltatore e sono molto autocritico».

Le piace nuotare dove non si tocca. Fa parte del suo carattere?

«Mi butto sempre nelle zone di non comfort, in quello che non so fare bene. Ho tanta voglia di imparare, di essere diverso da prima, di crescere. Faccio musica da vent’anni ed è sempre più difficile, ma punto a mettermi i bastoni tra le ruote».

Il cinema è un’altra sua passione. Sui social, del nuovo film di Paolo Sorrentino «Parthenope», ha scritto: «Parliamone». E allora parliamone.

«Mi piacerebbe scrivere per lui. Sono fan di Sorrentino ma non sono né un ascoltatore né uno spettatore che perdona tutto a tutti i costi. Il suo cinema ha sempre una poetica alta ma tangibile. Dopo averlo visto, ci penso per metà delle mie giornate. Quando succede questo, al di là dei gusti, significa che qualcosa è successo e che quindi è un grande film».

Fa parte del cast di «Vita da Carlo 3». Qual è la chiave che Carlo Verdone usa per aprire le porte delle storie, per oscillare tra ironia e malinconia?

«Non lo so, ma quando ho saputo che avrei lavorato con lui è stato uno dei giorni più belli della mia vita. Mi è capitato di fare due camei: una volta con Corrado Guzzanti e un’altra con Carlo Verdone. Forse la mia carriera è al culmine. È stato come duettare con Nick Cave e Thom Yorke».

Sua moglie (l’attrice Carolina Crescentini, ndr) che ne pensa?

«È di parte. Ha detto che le è piaciuto».

Che è stato bravo?

«Sì, fa sempre il tifo per me».

 

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