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Futurismo, ecco perché a sinistra lo prendono di mira. Salviamo la mostra che unisce gli italiani

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Gabriele Simongini
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È incredibile l’astio rabbioso, con la schiuma alla bocca, che i giornaloni di sinistra, le trasmissioni televisive antigovernative e i radical chic stanno esprimendo contro la mostra «Il Tempo del Futurismo» che si inaugurerà il 2 dicembre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. E si badi bene, è la prima grande mostra dedicata al movimento marinettiano dal nostro più importante museo statale dedicato all’arte italiana dell’ottocento e del novecento, sotto l’egida del Ministero della Cultura. Quindi è un omaggio che doveva essere fatto già molto tempo prima. Ma sembra una vera e propria offesa, inaccettabile, che a promuoverla sia un governo di centrodestra. Solo la sinistra può parlare di Futurismo.

 

 

Del resto, sulla Repubblica è stato scritto poco tempo fa che non c’è stata nessuna damnatio memoriae del Futurismo nel secondo immediato dopoguerra e che si deve solo alla lungimiranza della sinistra la successiva rivalutazione del rivoluzionario movimento d’avanguardia. Ma come dimenticare il clima di assoluta caccia alle streghe di cui furono vittime le opere futuriste identificate tout court con il fascismo? Il povero Balla viveva nel terrore che fossero scoperti a casa sua i capolavori futuristi che teneva nascosti col timore di essere perseguitato per la solita storia del fascismo. E tanti straordinari capolavori futuristi, come «La città sale» di Boccioni, furono considerati per quegli stessi motivi politici opere indesiderate che ricordavano un passato scomodo tanto che il grande Giulio Carlo Argan, a suo tempo fascista ma poi diventato un integerrimo comunista, disse che potevano essere vendute all’estero come infatti avvenne, con un danno incalcolabile per la nostra cultura. Collezionisti e musei americani, in particolare, pur facendo parte di una nazione che aveva combattuto e vinto i nazifascisti, compresero e apprezzarono la forza estetica e rivoluzionaria di quelle opere e non si preoccuparono certo di esercitare stigmatizzazioni ideologiche come avvenne in Italia.

 

 

Dalla metà degli anni cinquanta in poi, la riscoperta filologica del Futurismo fu portata avanti da grandi studiosi, alcuni di sinistra e altri vicini alla destra, che seppero andare al di là di ogni condizionamento ideologico, come, in vari ambiti e nel corso del tempo, Maria Drudi Gambillo, Teresa Fiori, Enrico Falqui, Luciano De Maria, Giovanni Calendoli, Mario Verdone, Giovanni Antonucci, Maurizio Calvesi, Raffaele Carrieri, Guido Ballo, Enrico Crispolti, Maurizio Fagiolo dell’Arco e Claudia Salaris, solo per citarne alcuni. È quindi ingiusto e inesatto dire che il Futurismo fu riscoperto solo dalla sinistra che sembra essersene appropriata, salvo poi dire, come ha fatto recentemente lo scrittore Fulvio Abbate, che «quando i politici attualmente al governo esaltano l’imminente taglio del nastro tricolore di una “grande e necessaria” mostra dedicata al Futurismo e ai suoi protagonisti, sembrano affermare esplicitamente che “il fascismo è bello"». Così viene applicata ancora la vecchia e superatissima equazione «futurismo=fascismo», senza alcuna precisazione né distinzione. Siamo tornati alla caccia alle streghe del secondo dopoguerra. Mi spiace deludervi, carissimi, il Futurismo appartiene a tutto il popolo italiano, senza sé e senza ma.

 

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