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Capalbio Film Festival, l'intervista a Marco Tullio Giordana: "Il cinema è la mia vita"
«Questo mestiere per me è vita, è come respirare. E uno dei motivi per cui continuo a farlo è anche consegnare i miei film al pubblico». Marco Tullio Giordana racconta a Il Tempo cosa significhi per lui ancora oggi fare il suo lavoro. Il regista, 73 anni, ha inaugurato ieri la terza edizione del Capalbio Film Festival con il suo ultimo lavoro, «La vita accanto», e al fianco di due delle protagoniste, Valentina Bellè e Sonia Bergamasco, ha incontrato gli spettatori del Nuovo Cinema Tirreno di Borgo Carige. Tratto dal romanzo di Mariapia Veladiano, e nelle sale dallo scorso 22 agosto con 01 Distribution, il film è ambientato a Vicenza, negli anni compresi fra l’Ottanta e il Duemila, dove vive una ricca e influente famiglia composta da Maria (Bellè), dal marito Osvaldo (Paolo Pierobon) e dalla gemella di quest’ultimo, Erminia (Bergamasco), famosa pianista. Dopo anni di tentativi, Maria mette al mondo Rebecca, attesa con grandi aspettative. Ma la neonata ha una vistosa macchia purpurea che le copre metà del viso. Quel difetto diventa per Maria un’ossessione tale da rifiutare la sua maternità, oltre a far venire a galla veleni antichi e segreti. Solo grazie al suo talento musicale al pianoforte, crescendo Rebecca (Beatrice Barison) troverà il modo per non essere segnata dalla vergogna e dall’isolamento.
Marco Tullio Giordana, i festival sono un modo per dare una seconda vita ai film.
«Noi li facciamo proprio per consegnarli al pubblico. Ho sempre amato incontrare gli spettatori, e manifestazioni come questa di Capalbio sono un’occasione per creare confronti e dibattiti molto interessanti».
Cosa l’ha affascinata della storia de «La vita accanto»?
«Mi sembrava molto bella e stravagante, non nella corrente e nelle mode. Mi ha toccato molto e ho pensato che potesse venire fuori un buon film. Non sempre i progetti vanno in porto, questo per fortuna l’ho realizzato con molta meno fatica di altri».
C’è stato qualche film nella sua carriera che non è riuscito a fare?
«Purtroppo tantissimi. E non so neanche se potrò recuperarli, visto che il tempo scorre. Comunque proseguo a raccontare storie, mi piace farlo, ora sto lavorando a un nuovo progetto al cinema. Anche il teatro mi impegna molto, perché credo che un regista debba essere completo. Sul palcoscenico trovo volti straordinari, anche meno conosciuti. Io cerco attori bravi e convincenti, per me sono come delle radiotrasmittenti che emettono segnali che vengono captati».
Il teatro sta vivendo un bel momento, rispetto al cinema.
«Ho notato un ringiovanimento del pubblico, dopo la pandemia. Credo ci sia bisogno di sentire delle parole e dei testi che volano alto, anziché la mimesi della piccola quotidianità. In generale, sento in giro un chiasso arrogante e confuso che non ha alcuna seduzione e capisco che si cerchi questo incantamento nel teatro, ma credo anche nel cinema».
Dove trova la spinta per continuare a fare il suo lavoro?
«Non me lo chiedo più. Lo faccio naturalmente, per me è come respirare, è la vita che mi spinge a fare questo mestiere. E di certo non potrei cambiarlo, arrivato a questa età».
Con «La meglio gioventù», oltre vent’anni fa, lei è stato un po’ il precursore della serialità d’autore. Le interessa ancora quel tipo di linguaggio?
«Mi interessa se posso fare il mio lavoro come voglio io. Se invece devo obbedire a una serie di regole e algoritmi, non mi interessa. Oggi c’è un’accondiscendenza sbagliata, quando, invece, bisognerebbe continuare a combattere per le proprie idee. Io penso questo per me, non è un editto. Mi sono dato delle regole per essere moderatamente felice nel lavoro che faccio, che è talmente bello che deve essere sempre pieno di invenzione. Il cinema deve sciare su neve fresca, non battere la pista preparata dal gatto delle nevi».