Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Fulminacci "elettrizzato!" per il primo Palazzo dello Sport: "Non vedo l'ora"

Valentina Bertoli
  • a
  • a
  • a

La tendenza intrinseca a scandire le lettere delle parole per percepirne il sapore in bocca e il suono nell’orecchio e il talento cristallino di chi si immerge nel ribollire delle vibrazioni e le riporta in superficie attraverso il linguaggio: sono queste le coordinate da segnare se si vuole esplorare il pianeta di Fulminacci. Potrebbe essere definito come l’Enea del cantautorato romano, che sulle spalle al posto di Anchise carica la musica della Capitale. Ma è lui stesso a smarcarsi da quest’etichetta: «La mia reference non è Califano e non vengo a dirti come si fa la carbonara», confessa ridendo sotto i baffi. Da una parte c’è il rigore stilistico, certo. Ma dall’altra emerge la personalità di un artista giovanissimo che si muove tra il tempo del pensiero e l’immediatezza della battuta sagace. Stasera accenderà per la prima volta il Palazzo dello Sport e la performance, si intuisce, sarà maiuscola.

Come si sente?

«Elettrizzato. È il concerto più grande che abbia mai annunciato. Non vedo l’ora. Prima di salire sul palco un po’ di ansietta ce l’ho sempre, ma è un’ emozione che va gestita».

Ha iniziato chiedendosi com’è la vita veramente, l’ha capito?

«Di più di quando ho scritto quella canzone. Era l’inizio di un percorso di maturazione in cui per la prima volta ho ragionato sul non riuscire a godersi il presente. È una specie di delirio e c’è una quantità di egocentrismo. Sono molto più a fuoco. Non avevo capito niente rispetto a quello che ho capito adesso e mi auguro che sia niente rispetto a quello che capirò».

Federico Fellini ha detto che «l’artista ha l’obbligo di testimoniare». Qual è il ruolo dell’artista?

«Raccontare l’epoca storica in cui vive, cercando di produrre degli interrogativi che facciano sviluppare la voglia di continuare ad ascoltare. Dire e basta ha stufato. Magari ci sarà una crisi dell’affermazione fine a se stessa».

«Infinito +1» è il suo ultimo album. Perché si chiama così? Ha paura di perdere il controllo?

«Sì. Sarebbe incredibile sapere qualcosa di certo da chi va nello spazio. C’è la fascinazione e il terrore rispetto a ciò che siamo nell’universo. Il +1 l’ho messo per strizzare l’occhio a quel giochetto infantile che si faceva per far sì che nessuno controbattesse e per dire che noi umani lottiamo per la libertà ma abbiamo bisogno di un recinto in cui inserirla. Rendere circolare ciò che è ignoto».

Lei è abitudinario?

«Mi piacerebbe essere aperto agli imprevisti ma non lo sono. Ogni volta che mi cimento in qualcosa di scomodo, però, sono molto più felice».

Che cosa è successo in studio?

«Peri primi due dischi ho scritto le canzoni a casa registrando le tracce degli strumenti. Per questo album alcuni brani sono nati proprio nel delirio dello studio, suonando».

Viene spesso associato a Daniele Silvestri, che effetto le fa?

«Resta e resterà un onore. Ci sono cresciuto. Lo ascoltavo in macchina con i miei genitori e mio fratello. Alcuni pezzi liso come il Padre nostro. Ha sempre fatto quello che gli pareva, nel modo più sano possibile. Ha un pubblico che non si estinguerà mai. È la prova che si può fare il pop facendo quello che ti piace e che fare il pop non è facile».

Le sue canzoni sono piene di parole. Ci gioca e le incastra bene. Come fa?

«Posso sembrare secchione e nerd, ma non lo sono. È una passione fisica per le parole. Mi piacciono come se fossi drogato. Sento come suonano. Non vedo le lettere. Sento le t, le m, le d, le s. Ho una memoria acustica».

In «Così cosà» lei dice «restiamo intatti». Ci sta riuscendo?

«Credo sia l’unico modo per non ritrovarsi senza sapere cosa fare. Il rischio di chi fa questo lavoro è di iniziare a scollarsi dal mondo reale. Vivere in modo astratto è sbagliato. Se io non stessi bene, magari avrei picchi assurdi e poi dei crolli».

Dove si vede fra dieci anni?

«Se rimanesse tutto com’è in questo momento, ci metterei una firma gigante. Sono molto contento».

Dai blog