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D'Annunzio, i divi e le mascherine. Osho: "Ve lo racconto io il Vate"

Federico Palmaroli in arte Osho protagonista domani a Pescara per "La Festa della Rivoluzione"

Pietro De Leo
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«D’Annunzio? Chissà, magari di questi tempi avrebbe gettato in aria la mascherina esclamando "Me ne frego!"». Sorride al telefono Federico Palmaroli, l’«Osho» delle celebri vignette che raccontano con ironia la giornata politica. Domani, alle 18, Palmaroli salirà sul palco a Pescara, con il direttore di «CulturaIdentità» Alessandro Sansoni, della rassegna «La Festa della Rivoluzione, D’Annunzio torna in Abruzzo». Si tratta di una kermesse che per quasi una settimana (è iniziata mercoledì scorso e terminerà martedì prossimo) riunirà artisti, giornalisti, storici, uomini di sport, nel segno del Vate. L’iniziativa è promossa dal Comune di Pescara (guidato da Carlo Masci) e dal Consiglio Regionale dell’Abruzzo (presieduto da Lorenzo Sospiri). 
Quest’anno, peraltro, compie un secolo la Carta del Carnaro, ossia la Costituzione della reggenza di Fiume. Quanto di innovativo c’era in quel testo?
«Quella Costituzione ha anticipato temi e istanze. Stabiliva il diritto di voto per tutti, sia uomini che donne e poi abbiamo visto che è stato riconosciuto nel referendum del ’46. Poi teorizzava il "salario minimo garantito", tema di cui si parla molto anche oggi». 
Anticipare, innovare, inventare è una costante dell’opera di D’Annunzio, se pensiamo alle parole che ha coniato.
«Sì esatto, semplificando, può essere definito una sorta di primo "uomo marketing", ma anche un artista completo». 
Tuttavia nell’immaginario collettivo, sia Fiume che D’Annunzio sono tratteggiati negli aspetti più eccentrici. Forse questo non rende giustizia alla figura del Vate.
«Su d’Annunzio è stata apposta un’etichetta politica, semplicistica, che lo dipinge come alfiere delle istanze di destra, questo non è esatto, perché lui andava oltre. Fiume era un paradigma per dare voce a tutti i popoli oppressi, nel segno di una solidarietà che oggi manca. Con i parametri di oggi, se fosse una "zona rossa" è lì che mi piacerebbe trovarmi. È una vicenda storica che va approfondita, così come le biografie dei personaggi che la animarono, alcuni meravigliosi, penso a Guido Keller. In tutto questo c’è una responsabilità da parte della scuola. Io non ricordo grandi approfondimenti su d’Annunzio, idem per un altro grande del primo Novecento, Marinetti. Forse è anche per questo che hanno prevalso gli aspetti folkloristici». 
D’Annunzio è stato sì un’artista completo, ma era anche un uomo di forte impatto estetico. Possiamo dire che fosse un anticipatore del «divismo» di oggi?
«Per certi aspetti sì e ci sono alcune cose a suggerirlo. Tipo il suo ingresso nella "città Santa", come lui definiva Fiume, a bordo di un’automobile di cui era gelosissimo e su cui quasi nessuno poteva salire. Oppure il fatto che molti legionari si sfidavano letteralmente a duello, con i coltelli, per poter conquistare il ruolo di sua guardia del corpo. Però d’Annunzio consumava anche il rancio con i legionari, con cui condivideva momenti di vita. Questo lo rende diverso rispetto al modello del "vip" di oggi. Non era snobismo, il suo, piuttosto un aristocratico distacco». 
Si racconta che quando Mussolini si recava al Vittoriale, la dimora del Vate, veniva fatto attendere in anticamera dinnanzi ad una scritta, "Ricordati che sei vetro contro acciaio". Uno sberleffo al potente, insomma. Quanto di d’Annunzio c’è in «Osho»?
«Be’ è un paragone enorme! L’irriverenza contraddistingueva sia d’Annunzio sia alcune figure che parteciparono all’impresa di Fiume. Basti pensare che Keller passò con un aereo su Montecitorio e lanciò un pitale a sberleffo verso la classe politica. Certo, io ho altri mezzi, ben più domestici, tuttavia l’ironia e l’irriverenza mi appartengono». 
È difficile, nel nostro Paese, praticare l’ironia?
«L’ironia è viva ed esistono molti strumenti per praticarla. Ai protagonisti della vita pubblica non manca, ma la stessa cosa non si può dire dei loro supporter, che buttano tutti in acredine. Oggi è difficile fare satira, e lo dico per esperienza personale, senza ritrovarsi bersaglio di pomodori virtuali, perché c’è una diffusa volontà ad essere più realisti del re».
I social quanto sono «dannunziani»?
«Sicuramente con il tipo di mentalità che aveva, d’Annunzio avrebbe potuto immaginare uno strumento di questo tipo. Di sicuro avrebbe messo a tacere tutti».
Un’altra costante della vita e dell’opera dannunziane era la ricerca del bello. Il nostro Paese ne è culla, ma la nostra società ne ha smarrito il senso?
«Secondo me sì. Gli italiani sono troppo adagiati sulla bellezza delle "rovine venerate". Tutte cose che abbiamo ereditato e su cui ci siamo adagiati. Non siamo nulla di più che "gestori di un patrimonio". L’Italia ormai, per dirla con d’Annunzio, è un Paese "rammollito e posapiano"». 
 

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