Da Romano Prodi ad Achille Occhetto torna la sinistra del nì
In fondo c'è da capirli. Per chi ha attraversato le varie ere della sinistra italiana questo referendum si sta trasformando in un vero e proprio dramma familiare. La battaglia tra il sì e il no alla riforma renziana sta assomigliando sempre più alla costruzione del Muro a Berlino, che d'un tratto fece risvegliare in due parti separate della città parenti, amici, fidanzati. Così non sorprende che qualcuno, per non sentirsi accusato di aver tradito, preferisca mettere la testa sotto la sabbia e fingere che il 4 dicembre non accada nulla. È il caso di Romano Prodi. Il «Professore» bolognese, tirato per la giacchetta da entrambi i fronti, sembrerebbe intenzionato a votare sì (o non sarebbe ostile a farlo secondo quanto riferisce il Corriere della Sera) ma pubblicamente ha detto e ridetto che mai e poi mai svelerà la sua scelta sulla riforma renziana. Il premier ci contava: annoverare tra i sostenitori del ddl Boschi l'unico esponente capace di sconfiggere nelle urne Silvio Berlusconi sarebbe stato un colpaccio. Contrapporre poi a Massimo D'Alema la più celebre delle «vittime» dei - veri o presunti - complotti di «Baffino», sarebbe stato il modo migliore, agli occhi di Renzi, per stabilire da che parte sta il bene e dove il male. Ma Prodi non si è sbilanciato. Neanche per il no, nonostante Pippo Civati - ex sodale del «rottamatore» ai tempi delle prime leopolde e prodiano convinto - gli avesse chiesto in tutti i modi un pronunciamento contro la riforma. Niente da fare: «So come voterò ma non lo dico - ha ribadito l'ex premier -. Ormai sono un privato cittadino». Non è l'unico a nascondersi. Altri esponenti della storia della sinistra hanno deciso di non accodarsi né alla battaglia di Renzi né a quella di D'Alema. Un concetto perfettamente sintetizzato da Achille Occhetto: «Il referendum su se stesso e il no di D'Alema sono due facce della stessa medaglia». Molto più contorta, come è d'abitudine per il personaggio, è la posizione di Fabrizio Barca. Che all'inizio non ha aderito né alla posizione di Renzi né alla battaglia per il no di Pier Luigi Bersani. Ma si è espresso per un «astensionismo attivo» (?!?) nell'unico referendum che non prevede il quorum e che, di conseguenza, non dà alcuna rilevanza politica all'astensione. Poi, forse rendendosi conto dell'assurdità della sua posizione, si è schierato sul fronte del sì. «Un testo costituzionale vale l'altro: sono indifferente - ha scritto nel suo blog sull'Huffington Post -. Questo è l'esito della valutazione che ho fatto e rifatto degli effetti di lungo periodo della riforma. E dunque dovrei astenermi. Ma l'esito del voto è carico di conseguenze politiche immediate. Negative, in entrambe i casi. Particolarmente negative nel caso di vittoria del No. "Abbattere" o indebolire Renzi vuol dire minare l'argine contro la sfiducia nelle pubbliche istituzioni, creare un vuoto che non sarà certo la "sinistra" a colmare, bensì l'autoritarismo che promette barriere, protezione, sicurezza, identità. E dunque, visto che alla riforma sono indifferente, voterò Sì, per sostenere quell'argine». Ci sono poi i nì sofferti. Che, in alcuni casi, si sono trasformati in sì più per amore della Ditta che per convinzione. Il caso più eclatante è quello di Gianni Cuperlo, convinto dall'impegno di Renzi a cambiare la legge elettorale e subito inserito nella lista dei traditori dai vecchi compagni della minoranza Pd. A Cuperlo ha scritto una lettera appassionata Stefano Fassina, per invitare lui, Enrico Rossi e Giuliano Pisapia a schierarsi dalla parte giusta. Sì, perché la vera sorpresa delle ultime settimane è stata proprio la scelta dell'ex sindaco di Milano. Che non solo ha finito per appoggiare per la sua successione a Palazzo Marino un esponente poco amato dalla sinistra doc come Giuseppe Sala. Ma ora si è definitivamente venduto l'anima al «diavolo» renziano sposando, dopo una lunga riflessione, il sì al referendum. Pisapia, l'ex sindaco arancione che avrebbe dovuto costituire uno dei fiori all'occhiello di Sinistra Italiana, è in realtà solo la slavina più lampante in un partito mai nato. L'ultimo a salutare è stato Massimo Zedda, sindaco di Cagliari ex Sel e ora in politicamente apolide. Ma assai vicino al Pd. «Se votassi no subito dopo dovrei dimettermi» ha detto Zedda, dando una coltellata al cuore ai vari Fassina e D'Attorre. Amicizie e sodalizi che vengono meno, «tradimenti» che non saranno perdonati. Fino a che il Muro non sarà abbattuto. Per quello di Berlino ci vollero 28 anni. Per quello della sinistra forse qualcosa in più.