La farsa dei referendum mai rispettati
Dall'abolizione del finanziamento ai partiti a quella del ministero dell'Agricoltura Ecco tutti i casi in cui la volontà popolare è stata tradita. Con o senza quorum
I referendum appassionano sempre più gli addetti ai lavori e sempre meno il popolo. Dal 1970, quando si registrò l'istituzione della consultazione popolare per abrogare leggi, il calo nella partecipazione alle urne è stato costante (dall'88% di votanti per il quesito sul divorzio nel 1974 al 23% nel 2009 per l'abolizione della quota proporzionale alla Camera). Accanto a questa tendenza, c'è poi - in alcuni casi - la considerazione che la scelta popolare è disattesa nella prassi o dimenticata dal legislatore, e le modifiche restano sostanzialmente solo buoni propositi, non solo quando il quorum non viene raggiunto. Emblematico è il caso delle norme abrogate con il referendum del 12 e 13 giugno del 2011. I dispositivi legati al nucleare su cui fu chiesto agli elettori di scegliere furono sostanzialmente stralciati dal governo Berlusconi; la diatriba sull'acqua e sulle aziende che gestiscono la rete e la distribuzione registrò un successo (55% di sì a difesa dello spazio pubblico), ma senza veri cambiamenti. Il voto sul primo quesito abrogò l'obbligo di fare delle gare aperte a soggetti pubblici, privati o misti, mentre il secondo era volto evitare speculazioni o profitti sull'acqua, indicando una «remunerazione del capitale investito dal gestore» fino al 7%. Di fatto, però, con il cortocircuito di regolamenti e legislazioni successive, le amministrazioni locali prudentemente hanno prorogato le precedenti concessioni, e la auspicata restituzione di introiti superiori richiesti dalle bollette dell'acqua è stata relegata a pochi mesi del 2011 (luglio-dicembre). In più nel 2013 l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha indicato un quadro retroattivo, per il 2012 e 2013. Doveva essere transitorio, ma come succede in Italia poi si replica per decenni, confermando l'antico adagio legato all'Acquedotto Pugliese, cioè che certe aziende «danno più da mangiare che da bere...». Sui contributi statali ai partiti, il cosiddetto finanziamento pubblico, gli italiani si sono pronunciati nel 1993. «Basta soldi alla partitocrazia», fu lo slogan del tempo. Nei fatti, però, non ci fu alcuna rivoluzione, perché con la legge 515 del 10 dicembre 1993, dedicata al «contributo per le spese elettorali», tutto rimase come prima. Nel 2000 altro tentativo referendario di togliere risorse pubbliche alla politica (senza quorum). I tagli, in ogni caso, sono anestetizzati da disposizioni che consentono ai partiti di ottenere rimborsi per le spese elettorali, aperti anche a liste che raccolgono solo l'1%, o di incassare l'intera somma nonostante la fine anticipata della legislatura. Eclatante il caso poi della privatizzazione Rai: l'11 giugno 1995 gli italiani si sono espressi al referendum per interrompere il connubio tra politica e Tv statale. I promotori del quesito volevano aprire ai privati la Rai, immaginavano un azionariato diffuso: nei fatti, però la politica conta più di prima. Antonio Campo Dall'Orto, direttore generale della Rai, è nominato dal consiglio d'amministrazione, a sua volta espressione di governo e partiti. Surreale la querelle intorno al Ministero dell'Agricoltura. cassato dal voto referendario del 1993, è risorto con la dizione «Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali». Stesse deleghe, ma nome differente... In tanti altri casi, la partecipazione popolare non è bastata a raggiungere il quorum che dà validità alla consultazione (è accaduto per la pioggia di quesiti del 2000). Subito dopo tutti si affrettano a volersi fare interpreti della «vox populi», stratagemma gattopardesco per non cambiare nulla. I referendum? A volte molto rumore per nulla...