Tra alimentazione e cultura
Antropologia e scelta vegana, ecco perché mangiare carne non è un istinto naturale
Margherita è una bambina di quasi sei anni, nata e cresciuta a Roma. Margherita non ha mai chiesto di essere portata allo zoo, al parco acquatico, al circo con animali, e una volta, capitataci per caso, stette tutto il tempo col muso chiedendo di andare via. Margherita non ha mai chiesto di possedere un uccellino o un criceto, non ha mai mangiato animali e quando suo padre provò a farle assaggiare un merluzzo lo risputò nel piatto disgustata. A tre anni, passando davanti a una macelleria, Margherita si rivolse a sua madre esclamando angosciata: «Hai visto? In questo posto è pieno di pezzi di animali morti!». A tre anni Margherita non conosceva il significato delle parole prosciutto, mortadella, salame, salsiccia, lombata, braciola, ossobuco, bistecca e così via. Nella sua rete di segni le macellerie erano, e restano, luoghi pieni di «pezzi di animali morti». Margherita, mia figlia, ha ricevuto fin dalla nascita un’educazione antispecista, vale a dire un’educazione improntata al rispetto degli animali, al loro diritto alla vita e alla libertà, contro lo sfruttamento e il dominio dell’uomo. La storia di Margherita ci pone davanti a quesiti che mettono in discussione una verità socialmente condivisa: mangiare animali è biologicamente necessario? o meglio, risponde a un istinto naturale della specie umana? La risposta è no. Uccidere e mangiare animali non ha nulla di innato e non è necessario. Ciò che viene chiamato istinto onnivoro è un insieme di pratiche, credenze e stereotipi culturali. Quanto esporrò di seguito attinge alle lezioni tenute all’Università di “Tor Vergata” dall’antropologo Piero Vereni i cui insegnamenti sono stati applicati al tema del “carnismo”. La tesi è che sono le scelte culturali a determinare l’ambiente in cui viviamo e, una volta costruito il nostro ambiente (le abitudini, i gusti, i comportamenti), saremmo indotti a credere che quel sistema sia quello naturale. Il ruolo della cultura - La cultura è un sapere appreso. Il sapere si apprende in modo formale (per esempio in un’aula universitaria) e informale. Il sapere informale viene acquisito in forme subconscie, senza una chiara consapevolezza di come sia entrato a far parte delle nostre conoscenze. Il sapere appreso lo sentiamo talmente nostro da non saperlo più scindere dalla natura. In realtà la quota del comportamento innato per gli umani è bassissima, specie rispetto agli altri animali, che appunto possiedono più qualità naturali. Che cosa è innato nell’uomo? - Il battito cardiaco, la suzione, lo sbattere le palpebre, il movimento intestinale. Le scelte alimentari, invece, sono frutto di una educazione culturale a cui l’uomo è stato esposto. La caratteristica degli esseri umani è appunto l’apprendimento. Tuttavia, la cultura vegana, rappresentata da meno di un italiano su cento, è considerata innaturale e tacciata di fondamentalismo da parte dell’opinione pubblica. L’antropologo Francesco Remotti ha elaborato il concetto di antropopoiesi, indicando con questo termine tutti quei processi di «costruzione dell’umano». In altre parole l’antropopoiesi è l’operazione attraverso cui le culture costruiscono i propri specifici tipi umani. L’uomo subisce un vero e proprio processo di foggiatura. Tutte le categorie che sfuggono al sistema vengono considerate scarti. Gli scarti servono al modello dominante per consacrare la propria superiorità morale. Il sistema ha dunque bisogno di emarginare e denigrare lo scarto. Questa modalità costituirebbe uno dei motivi per cui i vegani sono così invisi all’opinione pubblica. Ma che cosa accade dentro una cultura alla fine del processo di «costruzione dell’umano»? Si giudica l’alterità. E lo si fa negativamente. L’etnocentrismo è appunto la tendenza a giudicare le altre culture in base ai criteri di quella di appartenenza, quindi attraverso una visione critica limitata al proprio punto di vista. L’etnocentrismo è la convinzione che i propri schemi siano quelli naturali e normali, ma non esiste la natura umana come schema di comportamento, esistono gli stili culturali. La cultura ha prodotto l’antropocentrismo, una credenza che mette l’uomo al centro dell’universo ritenendolo misura di tutte le cose e celebrando così la sua supremazia sugli altri animali. Per esempio, uno dei motivi per cui gli animali sono considerati inferiori rispetto all’uomo sarebbe il loro più basso livello di intelligenza. Ma l’uomo valuta l’intelligenza attraverso la quota di sapere appreso posseduta da un individuo. In quest’ottica, tutta umana, il cane è più intelligente della gallina, perché al cane gli puoi insegnare più cose. Nella nostra cultura l’intelligenza ci fa considerare il cane degno di vivere. Il maiale potrebbe essere considerato intelligente al pari del cane, tuttavia il maiale finisce sulle tavole e il cane no. A cosa è dovuta questa discriminazione? Verosimilmente al fatto che al cane e al maiale associamo significati diversi. Il significato implica una serie di narrazioni (con il cane ci vai a passeggio, lo associ alla fedeltà, alla compagnia, all’amicizia. Amicizia è affetto. Affetto a sua volta ha un proprio significato). Insomma, intorno al cane costruiamo una rete di segni, così come facciamo per il maiale attraverso una costruzione diversa. Ogni cultura ha una specifica rete di segni. Il cane è sempre lo stesso animale a Roma e a Seul, ma a Seul è visto in maniera differente e per un coreano la cotoletta di cane corrisponde a qualcosa di normale e naturale. Non c’è l’animale e basta: c’è il segno culturale di quell’animale. In altre parole, non esiste una ragione innata o oggettiva per cui il maiale o il cane debbano essere considerati cibo, ma una motivazione intersoggettiva che appartiene alla cultura condivisa. Che cosa dicono la filosofia, la linguistica e la sociologia moderna - Max Weber, uno dei fondatori della sociologia moderna, ha affermato che l’uomo è un animale intrappolato nei reticoli dei segni che egli stesso si è costruito come una specie di mosca intrappolata nella ragnatela. La cultura è una rete di segni. Per Ferdinand de Saussure il segno è l’unione arbitraria di un significante e di un significato. Non c’è alcuna connessione naturale tra il segno e la cosa che definisce. La connessione si impara. Nella teoria dell’uso del significato, Wittgnestein ci insegna che il significato di un segno è dato dalla potenzialità dei modi con cui posso utilizzare quei segni: il significato è sempre frutto di un’immagine mentale. Per esempio, nel nostro modo di pensare, il consumo di carne è associato alla caccia e alla virilità, mentre quello del pesce a uno status sociale elevato. In relazione all’uso del significato, la politica può essere considerata una lotta per i segni, ovvero una lotta per imporre certi significati rispetto ad altri. Quello che diamo per scontato è sempre il prodotto di una storia sociale, politica ed economica. Un dato importante, da considerare nella valutazione dei segni, è che la mercificazione degli animali è incastrata in meccanismi economici, così come tutte le attività inerenti il loro sfruttamento. Come uscire dalla trappola della ragnatela - Gli esseri umani possono ragionare sui propri comportamenti e cambiare, provocando dei mutamenti nella propria esistenza. La riflessività consente di mettersi in discussione. Ma la consapevolezza spesso produce disagio, e così, per dirla con Lacan, il principio umano che guida gli esseri umani molto spesso si traduce nel «non voglio sapere». Tornando alla storia di Margherita, notiamo in questa società una difficoltà condivisa a ritenere moralmente accettabile l’applicazione dei principi vegani in particolar modo allo stile di vita dei bambini. Nello specifico, contro l’alimentazione vegana in età pediatrica hanno battagliato i mezzi di comunicazione di massa, strumenti con cui il sistema controlla e colonizza i propri cittadini. Ma le battaglie vere, abbiamo imparato, sono quelle in cui si ha consapevolezza della scelta dei significati.