Date e numeri, parla il professor Carlo Gaudio: che cosa ci insegnano le epidemie
Nell'ultimo secolo si sono verificate 11 epidemie virali (per metà pandemie, in media una ogni 9 anni): nel 1918, 1946, 1957, 1968, 1977, 1997, 2002, 2009, 2012, 2014, 2019, identificate in base alla presunta area di origine
Il grande patologo tedesco Rudolph Karl Virchow insegnava: “Tra la Medicina umana e quella animale non vi è alcuna barriera scientifica, né potrebbe esservi: l'esperienza dell'una deve servire allo sviluppo dell'altra”. Un secolo e mezzo più tardi, lo scrittore statunitense David Quammen, autore del libro “Spillover” (Adelphi, 2014), preconizzava che la prossima grande epidemia (“the next Big One”) sarebbe stata causata da un virus proveniente da un animale, presumibilmente un pipistrello, e venuto a contatto con l'uomo attraverso un wet market in Cina. Dalla sua villa in Montana, lo scrittore indicava col termine spillover quel salto, quel momento in cui il virus passa, modificandosi, dal suo “naturale” ospite animale al primo ospite umano: il “paziente zero”. Le malattie infettive che seguono questo processo sono definite “zoonosi” (dal gr. ζῷον «animale»). Nell'ultimo secolo si sono verificate 11 epidemie virali (per metà pandemie, in media una ogni 9 anni): nel 1918, 1946, 1957, 1968, 1977, 1997, 2002, 2009, 2012, 2014, 2019, identificate in base alla presunta area di origine (Spagnola, Asiatica, Hong Kong, Russa, Medio Oriente) o al nome del virus responsabile. Passandole rapidamente in rassegna, la loro storia può fornirci utili insegnamenti. La Spagnola (1918, virus H1N1) Si stima che un terzo della popolazione mondiale fu colpito dall'infezione negli anni 1918-1919. La pandemia – la più estesa e tragica, esplosa a ridosso di una guerra mondiale – fece registrare una letalità maggiore del 2,5% e circa 50 milioni di decessi (ma alcuni ipotizzano fino a 100 milioni). Negli anni trenta furono isolati virus influenzali dai maiali e, attraverso studi sieroepidemiologici, furono messi in relazione con il virus della pandemia del 1918. Si è visto poi che i discendenti di questo virus circolano ancora oggi nei maiali. Da allora virus simili all'H1N1 continuano a circolare in modo endemico o epidemico negli uomini e nei maiali, ma senza avere la stessa patogenicità del virus del 1918. I tassi di mortalità per polmonite virale - provocata dalla malattia - furono più di 20 volte maggiori di quelli degli anni precedenti e quasi metà delle morti si registrarono in giovani adulti di 20-40 anni. Il 99% dei decessi fu carico di persone con meno di 65 anni. La Pseudo-pandemia (1946, virus H1N1) Alla fine del 1946 - anche questa volta a ridosso di una guerra mondiale - un'epidemia influenzale si diffuse in Estremo Oriente, in Giappone e Corea, tra le truppe americane, e successivamente - nel 1947 - ad altre basi militari negli USA dove fu isolato un ceppo virale che sembrò molto differente dal virus dell'influenza A sotto il profilo antigenico, per cui fu chiamato: “Influenza A prime”. Si ritiene che questa epidemia possa essere considerata una pseudo-pandemia, perché si diffuse sì a livello globale, ma causò relativamente pochi morti. Insolitamente, si verificò il completo fallimento del vaccino, che avrebbe dovuto proteggere un gran numero di militari americani, cui era stato inoculato. Il vaccino conteneva un virus attenuato di ceppo H1N1 che era risultato efficace nelle stagioni 1943–1944 e 1944–1945. Negli anni successivi, quando furono caratterizzati sia il virus del 1943 - da cui era stato derivato il vaccino - che quello del 1946-1947, si osservò che le sequenze di RNA virale erano marcatamente diverse quanto a composizione. L'Asiatica (1957, virus A-H2N2) Dopo la pandemia del 1918 e la pseudo-pandemia del 1946-47, l'influenza ritornava al suo andamento abituale per alcuni anni, fino al 1957, anno in cui si sviluppava una nuova pandemia. Un editoriale del New York Times dava l'allarme sull'importante epidemia che aveva coinvolto, in un breve periodo, circa 250.000 persone ad Hong Kong. Nonostante non esistesse una sorveglianza epidemiologica o di laboratorio come quelle che abbiamo oggi, il virus veniva studiato nei laboratori di Melbourne, Londra e Washington e fu rapidamente riconosciuto mediante i test di fissazione del complemento, mentre lo studio dell'emoagglutinina virale mostrò che si trattava di un virus differente da quelli fino ad allora isolati negli uomini (ciò fu confermato anche dalla neuraminidasi). Il sottotipo del virus dell'Asiatica del 1957 fu più tardi identificato come un virus A-H2N2, con diversi caratteri immunochimici che differivano marcatamente dagli altri ceppi conosciuti. Era noto che nell'influenza le infezioni batteriche polmonari secondarie o concomitanti erano frequenti e che ad esse erano dovuti molti dei casi fatali. A volte però la sovrapposizione batterica non poteva essere dimostrata, per cui si parlava occasionalmente di polmonite abatterica. Ma, con l'Asiatica del 1957, divenne evidente il fenomeno di polmoniti primariamente virali. Tranne le persone con più di 70 anni, la popolazione non aveva difese contro il virus: il numero stimato di decessi fu di circa 1,1 milioni in tutto il mondo. L'Influenza di Hong Kong (1968, virus H3N2) Come nel 1957, la nuova pandemia proveniva dal Sud Est Asiatico e anche questa volta fu la stampa a lanciare l'allarme con la notizia di una grande epidemia in Hong Kong data dal londinese The Times (i primi casi furono probabilmente in Cina, ma dato il regime di segretezza nel Paese le notizie dei contagi apparvero solo quando il virus arrivò a Hong Kong). Poiché l'epidemia si trasmise inizialmente in Asia, vi furono importanti differenze con quella precedente: in Giappone le epidemie furono saltuarie, sparse e di limitate dimensioni fino alla fine del 1968. Il virus fu poi introdotto nella costa occidentale degli USA con elevati tassi di mortalità, contrariamente all'esperienza dell'Europa dove l'epidemia – nel biennio1968–1969 - non si associò ad elevata mortalità. In Italia, l'eccesso di mortalità attribuibile a polmonite virale associata con questa pandemia fu stimato in circa 20.000 decessi. Poiché il virus Hong Kong differiva dal suo antecedente dell'Asiatica del 1957 per l'antigene emoagglutinina, ma aveva lo stesso antigene neuraminidasi, si pensò che il virus della pandemia precedente era ormai diventato uno dei “normali” virus in circolazione, ma ne era emerso uno più aggressivo dall'ibridazione con un ceppo presente negli uccelli: il virus H3N2 che è ancora in circolazione e domina la stagione influenzale attuale in diversi paesi europei. L'Influenza Russa (1977, virus H1N1) Questa epidemia era comparsa nel maggio 1977 nel nord est della Cina, ma fu curiosamente denominata “Russa”. Essa si diffuse rapidamente, soprattutto o quasi unicamente tra i giovani con meno di 25 anni, con manifestazioni cliniche lievi, tipicamente influenzali. Si riteneva che i giovani non fossero stati esposti al virus H1N1, che non aveva più circolato più dagli anni ‘50, quando erano diventati dominanti prima ceppi H2N2 e poi H3N2. In effetti, la caratterizzazione antigenica e molecolare ha dimostrato che questo virus era molto simile a quelli circolanti negli anni '40 e '50. L'Aviaria (1997, virus H5N1) L'H5N1, il virus dell'aviaria (dal latino avis: uccello), era già stato individuato poco dopo la metà del '900 in polli da allevamento. Sebbene il virus influenzale umano derivi, filogeneticamente dal virus influenzale aviario, cioè ne sia una forma modificata abile all'infezione umana, per quanto riguarda il virus aviario, fino al 1997 non erano mai stati descritti e dimostrati casi di trasmissione diretta da uccelli a umani. Nel 1997 venne identificato un primo passaggio nell'uomo, in un bambino di Hong Kong (le maestre avevano portato in classe dei pulcini infetti). Per stroncare l'epidemia - e la conseguente psicosi - vennero eliminati milioni di polli. Da allora sono stati identificati vari focolai, fino a quando non è stato messo a punto il vaccino. L'epidemia (nota anche come peste aviaria, è una malattia infettiva contagiosa altamente diffusiva, dovuta a un virus influenzale di ceppo A (orthomyxovirus), che colpisce diverse specie di uccelli selvatici e domestici, con sintomi che possono essere inapparenti o lievi (virus a bassa patogenicità), oppure gravi e sistemici, con interessamento degli apparati respiratorio, digerente e nervoso, e con alta mortalità (virus ad alta patogenicità). Il virus può trasmettersi agli umani, come è stato definitivamente dimostrato a partire dal 1997. Definito nasty beast (una brutta bestia) in un articolo su “Nature”, nel dicembre 1997 infettava per la prima volta 18 persone a Hong Kong, uccidendone 6. Da allora sino a settembre 2007 sono stati registrati 397 casi con 249 morti, soprattutto nel sud est asiatico, ma anche in Cina, Azerbaigian, Iraq, Egitto, Turchia. Considerato il numero delle persone colpite, l'incidenza è stata molto bassa, ma con mortalità molto elevata (oltre il 60%), come mai si era verificato per nessun virus aviario noto. Per tali motivi l'OMS e i maggiori virologi ed epidemiologi mondiali ritengono il virus H5N1, nel caso dovesse acquisire la capacità di replicarsi efficacemente negli umani, il miglior candidato per una eventuale nuova pandemia influenzale per i prossimi anni. La SARS (2002, virus SARS-CoV) La SARS – acronimo di Severe Acute Respiratory Syndrome, sindrome respiratoria acuta severa – è una forma atipica di polmonite causata dal virus SARS-CoV, un coronavirus (virus a ssRNA+, identificato dal Pasteur Institute di Parigi, così denominato perché al microscopio appare come una corona circolare) che successivamente gli scienziati cinesi hanno rintracciato nei pipistrelli del tipo comunemente noto come “ferro di cavallo”. La malattia da SARS-CoV appariva per la prima volta nel novembre 2002 nella provincia del Guangdong (Canton) in Cina. Incubato dai pipistrelli, il virus veniva trasmesso all'uomo tramite gli zibetti dell'Himalaya - quali vettori intermedi - venduti vivi in un mercato cinese per essere poi consumati come cibo (per quelle popolazioni prelibato). È stato riferito che il primo caso di SARS colpì a Shunde (Foshan, Guangdong) un allevatore che fu curato nel Primo Ospedale del Popolo di Foshan. Il paziente poco dopo morì e non fu fatta una diagnosi definitiva della causa del decesso. Scoppiata l'epidemia, il governo cinese non informò l'OMS fino al febbraio 2003, per preservare la sicurezza pubblica. Questa mancanza di trasparenza provocò gravi ritardi negli sforzi per controllare l'epidemia e causò critiche da parte della comunità internazionale verso il governo cinese, che fu costretto a scusarsi ufficialmente. La diffusione dell'epidemia è stata rapidissima, facendo scattare misure di contenimento draconiane e quarantene rigidissime. La malattia - identificata per la prima volta dal medico italiano Carlo Urbani (poi deceduto a causa della stessa) - produsse un'epidemia che determinò 8096 contagi e 774 decessi in 37 nazioni (per la maggior parte nella Cina continentale e ad Hong Kong) nel periodo tra il novembre 2002 e il giugno 2004, con un tasso di letalità di quasi il 10% (9,6%). Circa il 10-20% dei casi hanno richiesto la ventilazione artificiale. Il trattamento comprendeva la somministrazione di antipiretici, cortisonici, antivirali (ribavirin) ossigeno e supporto per la ventilazione, se necessario. I casi sospetti venivano isolati e il personale medico in contatto con il paziente andava adeguatamente protetto. Dall'estate del 2003 ad oggi non sono stati più segnalati casi di SARS in alcuna parte del mondo, con ciò lasciando ipotizzare la sua scomparsa in concomitanza con l'aumento delle temperature stagionali. L'Influenza Suina (2009, A-H1N1) Il 2009 è stato segnato dall'influenza suina, causata da un virus del sottotipo H1N1, che fino quel momento provocava la malattia solo nei maiali. L'epidemia appariva la prima volta in Messico, per poi diffondersi in diverse nazioni. Le morti in eccesso per la pandemia del 2009 furono stimate in 300-400mila. Il virus causale si presentava con caratteristiche uniche. Conteneva, infatti, una combinazione di geni influenzali che non erano mai stati identificati nelle persone o negli animali. Nel nostro Paese, l'Istituto Superiore di Sanità (ISS sottolineava che “mentre la maggior parte dei casi di influenza pandemica sono stati lievi, a livello mondiale si stima che la pandemia ha causato tra i 100.000 e i 400.000 morti nel solo primo anno”. L'epidemia si concluse ufficialmente nell'agosto del 2010, dopo aver contagiato (secondo le stime più attuali) quasi 7 milioni di persone, e aver causato oltre 400.000 morti in tutto il mondo. In Italia la risposta all'epidemia diede adito ad alcune polemiche, a causa di 24 milioni di dosi di vaccino acquistate per oltre 184 milioni di euro, praticamente mai utilizzate, anche per i ritardi nella sua consegna. La MERS (2012, MERS-CoV) Il virus responsabile della sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) è un coronavirus simile a quello che provoca la sindrome respiratoria acuta severa (SARS). Il virus della MERS è stato rilevato per la prima volta in Giordania e in Arabia Saudita nel 2012. Dall'inizio dell'epidemia vi sono stati 2.494 casi accertati e 858 decessi, con un tasso di letalità del 34%. La maggior parte dei casi si manifestava in Arabia Saudita. Inoltre, vi sono stati casi in Paesi non mediorientali, tra cui Francia, Germania, Italia, Tunisia e Regno Unito: tutte persone che si erano recate in Medio Oriente per un viaggio o per lavoro. Nel mese di maggio del 2014 sono stati confermati due casi negli Stati Uniti. In entrambi i casi, le persone colpite erano professionisti sanitari tornati di recente dal Golfo Persico. Dopo il mese di maggio del 2014, negli Stati Uniti non vi sono stati altri casi di MERS. In Corea del Sud si è verificata un'epidemia dovuta ai coronavirus responsabili della MERS nel periodo da maggio a luglio del 2015, dopo il ritorno di un uomo sudcoreano dal Medio Oriente. Si sospetta che in molti Paesi (compresi Egitto, Oman, Qatar e Arabia Saudita) la principale fonte di infezione siano i dromedari, ma il modo in cui il virus viene trasmesso all'uomo non è noto. L'infezione è più comune negli uomini ed è più grave nelle persone anziane e in quelle affette da patologie croniche preesistenti, come il diabete o una malattia cardiaca o renale. L'infezione è stata letale in oltre un terzo delle persone infette. Il virus della MERS si trasmette attraverso il contatto diretto con persone affette dalla malattia o attraverso le goccioline disperse nell'aria con la tosse o gli starnuti da un soggetto infetto. Si ritiene che le persone non siano contagiose finché non manifestano i sintomi. La maggior parte dei casi di trasmissione da persona a persona si sono verificati tra gli operatori sanitari che assistevano le persone infette. L'Ebola (2014, Ebolavirus) È partito invece dall'Africa il virus di Ebola, trasmesso dai pipistrelli. Anche in questo caso, era noto sin dalla metà degli anni '70, ma esplodeva solo nel 2014 da un focolaio acceso in Guinea. Il contagio si estendeva a diversi Paesi, causando migliaia di vittime. Il genere Ebolavirus, secondo la definizione dell'International Committee on Taxonomy of Viruses, è un raggruppamento di organismi che fa parte della famiglia Filoviridae, a sua volta parte dell'ordine dei Mononegavirales. Si conoscono cinque specie appartenenti a questo genere (oltre ad alcune non classificate) e quattro di queste sono responsabili della malattia da virus Ebola, che colpisce l'uomo con una febbre emorragica con un tasso di letalità molto alto. L'indagine al microscopio elettronico delle specie appartenenti al genere Ebolavirus mostra la caratteristica struttura filamentosa dei filovirus. Diverse piante e uccelli sono stati considerati riserve virali: tuttavia, tra 24 specie di piante e 19 specie di vertebrati inoculati sperimentalmente con Ebolavirus, solo nei pipistrelli si è verificata l'infezione. L'assenza di segni di malattia in questi pipistrelli è caratteristica delle specie-riserva. Nel 2012 è stato scoperto in Cina il primo isolamento da pipistrelli del filovirus specie Reston, a seguito di esami sierologici condotti in una popolazione di pipistrelli cinesi. La ricercatrice berlinese Gretchen Vogel, dello staff editoriale di Science, pubblicava sulla prestigiosa rivista l'11 aprile 2014 un editoriale dal titolo: “Are Bats Spreading Ebola Across Sub-Saharan Africa?” (“Sono i pipistrelli che diffondono il virus di Ebola in tutta l'Africa sub-sahariana?”), suggerendo come la diffusione del virus mettesse a rischio le persone che vivevano nelle aree boschive di tutta quella regione. L'infezione da virus Ebola porta a sviluppare una febbre emorragica. L'emorragia interna è causata da una reazione tra il virus e le piastrine che dà luogo a varie rotture nelle pareti dei vasi capillari. Tra gli esseri umani, il virus viene trasmesso mediante il contatto diretto con i fluidi corporei infetti (anche il sudore sempre presente sulla pelle), oppure, in minor proporzione, per via epidermica o per contatto con le membrane mucose. Il periodo di incubazione varia dai 2 ai 21 giorni, ma generalmente è di una settimana. L'OMS dichiarava il cessato allarme epidemico da Ebolavirus a fine 2016. Il COVID-19 (2019, SARS-CoV2) Alla fine di dicembre 2019, l'ufficio dell'OMS cinese viene informato di casi di polmonite ad etiologia sconosciuta, verificatisi nella città di Wuhan, nella provincia di Hubei in Cina. Già il 3 gennaio i casi segnalati alla OMS salgono a 44, un quarto dei quali (11) severi. Wuhan viene subito totalmente chiusa per la situazione di rischio sanitario infettivo rapidamente crescente. Il genoma del virus viene rapidamente sequenziato dagli scienziati cinesi: un coronavirus simile a quello che aveva provocato la SARS e perciò denominato SARS-Cov2. L'epidemia continua a diffondersi ed il 30 gennaio 2020 viene dichiarata l'emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale (il 31 gennaio il governo italiano decreta lo stato di emergenza semestrale). Tra gennaio e febbraio 2020 l'epidemia si espande in diverse nazioni (Corea, Giappone, Germania, Italia). Nelle settimane successive focolai di epidemia virale, che provoca la malattia denominata COVID-19, vengono individuati nella maggior parte dei Paesi occidentali. Nelle settimane successive, focolai d'infezione sono individuati nella maggior parte dei Paesi occidentali. L'11 marzo 2020, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) modifica lo stato dell'infezione da SARS-CoV2, classificandola non più come epidemia, ma come pandemia. In Italia, il 20 febbraio un paziente di 35 anni risulta positivo al virus mentre era già degente in un'unità di terapia intensiva nell'Ospedale di Codogno, Lodi, per una polmonite virale interstiziale. Il giorno seguente, a Codogno si riscontrano altri 36 casi di pazienti positivi senza che venga stabilito un evidente collegamento con il caso precedente. L'individuazione di questo gruppo di persone infette segna l'inizio del più grande focolaio di SARS-CoV2 al di fuori della Cina. Ad oggi (10 aprile 2020), la pandemia ha causato nel mondo oltre 1.670.000 contagi (quasi 150.000 in Italia), con oltre 100.000 morti (circa 19.000 in Italia), con un tasso di letalità intorno al 6% (oltre il 12% in Italia). ******* Questa breve rassegna epidemiologica induce a qualche seria riflessione. La prima deriva proprio dalle date e dai numeri. Undici epidemie in 100 anni, ma cinque negli ultimi 20: una ogni 4 anni. Stupisce che anche gli scienziati di settore possano (dopo aver negato la probabile diffusione in Italia) parlare di “cigno nero inatteso”. Il Center for Strategic and International Studies (CSIS), fondato a Washington più di 50 anni fa, un'organizzazione di ricerca senza scopo di lucro dedicata a fornire analisi strategiche sulla sicurezza e sulla salute, all'inizio dell'ottobre 2019 (sul magazine Politico) aveva ipotizzato con concreto realismo l'arrivo imminente di una epidemia, causata da “un nuovo e altamente trasmissibile coronavirus”, commentando: “Il mondo è cambiato in modi che rendono molto più difficile contenere le malattie e alcuni degli errori che alimentano la sua diffusione sono già avvenuti nelle precedenti epidemie”. Fatta eccezione per la comparsa del virus (nella simulazione era l'Europa, precisamente Berlino, nella realtà la Cina), tutto sembra molto simile alla successiva realtà: i tempi di diffusione, la trasmissibilità, il tasso di mortalità, l'effetto su sistemi sanitari, economie e politica, con divieti di viaggio e chiusura delle frontiere. Misure non sufficienti a contenere la diffusione del virus, per via di decisioni assunte troppo tardi. Nella simulazione, si sottolineava che l'interruzione dei voli avrebbe avuto gravi ripercussioni sulla cooperazione internazionale e sul commercio e coincidevano anche le risposte monetarie e quella sulla preparazione del vaccino (un anno). In una visione più generale, l'umanità deve abituarsi alle aggressioni virali che potrebbero trasformarsi in epidemie o in pandemie e gli Stati, consapevoli di ciò, dovrebbero essere pronti a fronteggiarle. La prevenzione è fondamentale, sia a livello di sviluppo sociale e di igiene ambientale, che a livello di strutture sanitarie e di ricerca scientifica. L'ambiente e l'educazione alle indispensabili norme igieniche sono fondamentali per la prevenzione delle epidemie zoonotiche. La patocenosi è un concetto lanciato dallo storico della medicina croato, naturalizzato francese, Mirko Drazen Grmek e rappresenta l'insieme delle malattie presenti in una popolazione in uno specifico periodo e in un determinato contesto socio-economico. La patocenosi racchiude quindi un complesso di malattie, variabile sia quantitativamente che qualitativamente, in cui la frequenza di ciascuna di esse dipende dalle altre malattie o da fattori ambientali e legati agli stili di vita. Non vi è dubbio che un elemento fondamentale per la prevenzione di future, nuove epidemie sia la cooperazione degli Stati nel diffondere la cultura dell'igiene ambientale e di una sana e corretta alimentazione, anche cercando, con la dovuta gradualità, di innovare tradizioni secolari. Come in Cina e nei suoi mercati di animali selvatici, vivi o macellati in loco. Cooperare con il governo cinese per diffondere una nuova cultura igienica nella popolazione - cultura che nelle metropoli più giovani e industrializzate cinesi si sta già diffondendo – contribuirebbe fortemente all'affermazione di una moderna leadership di quel grande Paese. Le zoonosi che provocano le epidemie e le pandemie sono drammaticamente tempo-dipendenti. La tempestività nel denunciare all'OMS ed alla pubblica opinione l'evenienza dei primi casi è un fattore di primaria importanza. Dallo studio delle passate epidemie, risulta un comportamento “compulsivo” della Cina di ieri e di oggi nel ritardare l'annuncio dell'innesto epidemico (comprovato dalle successive “scuse” dei governi cinesi). Questo – nei nostri tempi di Paesi strettamente interconnessi – è un fattore di drammatica e rapidissima espansione del contagio. Ogni giorno di ritardo nelle politiche sanitarie di isolamento del virus e di contenimento del contagio, comportano il tragico sacrifico (evitabile) di migliaia di vite umane. Secondo il South China Morning Post, il primo caso di coronavirus in Cina risalirebbe al 17 novembre, mentre il governo cinese ha ammesso pubblicamente l'epidemia solo il 12 gennaio con un ritardo di quasi due mesi. L'invio di un aereo con dotazioni sanitarie e nove medici in Italia, non può far dimenticare le gravi responsabilità del governo cinese nel diffondersi del coronavirus a causa dei ritardi, nel tentativo di silenziare i coraggiosi medici di Wuhan (primo fra tutti il compianto Liang Wudong), che denunciavano l'esordio ed il diffondersi dell'epidemia. Una volta che i focolai epidemici sono esplosi e la diffusione del virus diventa pandemica, le strategie per il contenimento dell'infezione sembrano ridursi a due. La prima è quella (tristemente) nota col termine di lockdown, blocchi di vario grado della mobilità delle persone in aree più o meno estese del territorio (“zone rosse”), oggi in atto in diversi paesi asiatici ed europei, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Lo scopo di questi lockdown è di ridurre il coefficiente “Rt”: cioè il numero di persone che, nel tempo, vengono contagiate da ogni persona infetta, sia pur essa paucisintomatica. L'esperienza di Hubei ha insegnato che in questo modo è possibile bloccare la diffusione del SARS-CoV2. L'efficace riduzione dell'infezione è di importanza cruciale per permettere una pronta assistenza e per una riorganizzazione del sistema sanitario, messo in crisi acuta dall'ondata inattesa di un così alto afflusso di pazienti, dei quali oltre il 10% richiede il ricovero in terapia intensiva. Il costo sociale, politico ed economico di un lockdown prolungato è però straordinariamente elevato ed attiva problemi sociali complessi, oltre a limitare gravemente le libertà democratiche individuali. Molto interesse ha destato il diverso approccio - altamente tecnologico - adottato dalla Corea del Sud per circoscrivere la diffusione dell'infezione. Mediante l'uso di un gran numero di tamponi diagnostici ed il tracciamento digitale degli spostamenti delle persone – tramite i loro telefoni cellulari – è stato possibile individuare i soggetti contagiati, imponendo non solo a loro la quarantena, ma anche alle persone che ne erano venute a contatto. In tal modo è stato possibile limitare la diffusione della COVID-19, senza dover chiudere intere città e bloccare le filiere produttive. L'esperienza della Corea del Sud suggerisce che il grado di preparazione culturale del Paese, associato ad approcci tecnologici avanzati, possono giocare un ruolo molto importante nel controllo della diffusione delle infezioni. La speranza e l'enfasi che i media (e le aziende produttrici) pongono sulla necessità di avere al più presto la disponibilità di un vaccino che protegga contro la COVID-19 derivano dai grandi trionfi che i vaccini hanno avuto nel controllo delle malattie infettive. Tuttavia, come sottolinea l'interessante rapporto dell'Accademia dei Lincei (Commissione Salute, 25 marzo 2020) sul problema Coronavirus, “non sempre, però, i vaccini proteggono bene. Abbiamo ancora una lunga lista di gravi malattie infettive verso le quali i vaccini sono solo parzialmente efficaci ed abbiamo una serie di clamorose sconfitte” (come si verificò nel caso del vaccino contro la pseudo-pandemia del 1946) e veri e propri colossali sprechi (come fu nel caso del vaccino – prodotto, acquistato e inutilizzato – per l'influenza suina del 2009). “In effetti – conclude il report dei Lincei - ogni malattia costituisce un problema immunologico a sé: anche oggi, con tutti i dati in nostro possesso, è difficile prevedere quale vaccino possa essere veramente efficace. Questa difficoltà si accentua nel caso della COVID-19, una malattia giovane su cui gli studi in corso nei laboratori di tutto il mondo stanno portando incessantemente nuovi dati. Inoltre, i virus a RNA vanno incontro a frequenti mutazioni, motivo questo per cui è spesso non facile preparare vaccini in grado di proteggere efficacemente verso le malattie causate da virus a RNA”. Infine, qualche riflessione etica sui caratteri e sugli effetti di questa pandemia. Con la rottamazione dei valori da un lato, e con i piani di rientro dall'altro, siamo arrivati a non avere un numero congruo di posti-letto nelle terapie intensive, a spendere sempre meno per le politiche di prevenzione ed educazione sanitaria, a non investire in ricerca e formazione, a non accantonare risorse per affrontare le epidemie. Il ritardo nell'affrontarle, la mancata cultura preventiva, gli errori determinati dall'emergenza, possono portare a paradossali, aberranti considerazioni. La deriva etica che pervade i nostri giorni alimenta in alcuni un'idea di fondo che il razionamento o la scarsità delle risorse disponibili – dovuta in sanità soprattutto ad errori programmatori o a tagli lineari delle risorse anziché delle malversazioni – ci debba condurre a prefissare criteri di selezione del valore della vita umana in base all'età. Nella fattispecie di questa pandemia si sta verificando che la malattia colpisce soprattutto gli anziani e induce qualcuno alla giustificazione assolutoria: "Erano ultrasettantenni malati"! È un'idea miope e pericolosa. Miope, perché dimentica di altre epidemie che hanno colpito soprattutto bambini o giovani adulti e risparmiato gli “ultrasettantenni”. Pericolosa, perché spinge ad assurdi conflitti generazionali, anziché mettere a fuoco e riaffermare con forza il patto di solidarietà tra i cittadini, che – in una società moderna e civile – ponga al primo posto, sempre, i valori più autentici della persona. Occorre, dunque, non cedere alle facili lusinghe del pensiero unico, sovente materialista, che pretenderebbe di considerare la tutela della salute come un costo e non come un fruttuoso investimento sulla persona e sulla collettività, alimentando quella deprecabile e pericolosa “cultura dello scarto”. Che vorrebbe deviare medici e operatori della salute dai princìpi ippocratici verso una logica aziendalistica e falsamente produttivistica. Un pensiero povero e dimentico che la nostra Costituzione, all'art. 32, 1° comma, recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E gli indigenti – spesso – sono persone anziane e fragili, meritevoli di curarsi e di nutrire speranze di miglior salute e di maggior benessere. Ciascuna vita è preziosa, ogni giorno della vita è unico, qualsiasi attimo della vita è importante, per tutti. *Carlo Gaudio Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche Internistiche Anestesiologiche e Cardiovascolari Università La Sapienza di Roma